Strega Un premio che promette di cambiare ma resta sempre com’è

Primo: mai opporsi ai cambiamenti. È pericolosissimo. Una regola che vale per la vita, per la letteratura e, soprattutto, per i premi letterari. Lo ha insegnato, con una frase-capolavoro, un romanzo-capolavoro, quel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa - un esordiente, preso all’inizio sottogamba dagli editori - in cui si dice: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Il romanzo, uscito postumo nel 1958, ricevette l’anno successivo il Premio Strega. Il quale premio, da anni, insegna che non bisogna mai opporsi ai cambiamenti, se vogliamo che tutto rimanga come è.
E non c’è, fra le istituzioni italiane - culturali e non - una giostra che continua a girare vorticosamente rimanendo immobile al proprio posto come lo Strega, nato nel ’47 nel salotto di Maria e Goffredo Bellonci grazie ai contributi di Guido Alberti, proprietario dell’omonima casa produttrice del liquore al quale il premio è intitolato e che ancora sponsorizza la manifestazione, sebbene - provate a guardarvi in giro, al bar o al ristorante - nessuno lo beva più. Da tempo. È Tempo di uccidere - come da titolo del primo romanzo premiato, di Ennio Flaiano - lo Strega. Morire, per poi rinascere, sempre uguale.
Sempre uguale in ogni cosa: protagonisti, pagine di giornali, cene al Ninfeo, editori premiati, lista dei quattrocento «Amici della domenica» (ogni tanto si cambiano i nomi degli giurati, lasciando identica la sostanza della giuria), «casi», polemiche. Che ritornano, vichianamente, ogni anno. Tanto da non distinguere più un’edizione dall’altra. Due giorni fa il Corriere della sera, in un pezzo nel quale si dava conto delle ultime mosse a ridosso della scadenza dei termini per la presentazione dei candidati, citava il caso dell’editore Neri Pozza che («polemicamente»!?!) rinuncia a partecipare a qualsiasi competizione letteraria per protestare contro lo strapotere dei grandi gruppi che da mezzo secolo si spartiscono le vittorie eccetera eccetera. La fonte era un comunicato del direttore editoriale di Neri Pozza, Giuseppe Russo. Soltanto che risaliva allo scorso anno. L’annuncio è sul sito di Neri Pozza dal maggio 2009. Tutto cambia, tutto rimane uguale. Anche i «casi». Nel 2009, per esempio, se ne creò uno ad hoc, con la (finta) autocandidatura di Antonio Scurati, il quale però era (veramente) supportato dal suo gruppo Rizzoli-Bompiani. E oggi, un anno dopo, arriva la (vera) autocandidatura di Rosa Matteucci, la quale, però, è (falsamente) supportata dal suo gruppo Rizzoli-Bompiani. Si invertono gli ordini dei fattori ma il risultato non cambia. Lo scorso anno perse Scurati, quest’anno la Matteucci. Tutto già visto, tutto già scritto.
Per spezzare il ciclo eterno dei corsi e ricorsi, serve davvero un guastatore. A volte ci sono.

All’edizione scorsa due giurati presentarono Wilson Saba, autore di Giorni migliori. Ottimo romanzo, ma della stessa Bompiani che puntava tutte le speranze e i voti su un altro cavallo. E così, da vero guastatore, Wilson Saba fu subito silurato dalla lista dei candidati.

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