Lo struggente testamento fotografico della diva più seducente e più inerme

Le istantanee furono scattate dal grande Bert Stern alla vigilia della scomparsa della star

Stenio Solinas

nostro inviato a Parigi

Sul pavimento c’erano ancora un paio di bottiglie di Château Lafite-Rothschild, vendemmia 1955, la camera era sempre una suite, la 261, dell’Hotel Bel-Air a Los Angeles, tutto archi e stucchi rosa, patii e gallerie, un décor orientale per la più americana delle città, la Mecca del Cinema, la fabbrica dei sogni. La volta precedente era stato il turno di alcune bottiglie di Dom Pérignon, cuvée 1953, e di molti martini ben gelati, e forse il passaggio al vino rosso voleva semplicemente dire che il ghiaccio era stato rotto, una complicità e un cameratismo erano stati instaurati, e dunque si poteva bere bene e non dover inseguire un’immagine glamour, champagne, cocktails, il coté mondano della società dello spettacolo. In comune con la suite era la stessa donna che la prima volta si era ubriacata di gin e di bollicine e ora dormiva il sonno profondo che solo il bordeaux propizia così bene: aveva il volto appoggiato dolcemente su una mano, i capelli biondi che ne incorniciavano l’ovale, un che di quieto e di indifeso. Si chiamava Marilyn Monroe e non le restavano da vivere che una manciata di giorni.
Al Bel-Air Marilyn era andata per un servizio fotografico. Era ancora nei cinema il suo ultimo film, Gli spostati, e, sorpresa, i critici si erano accorti che sapeva recitare. Che non ne avrebbe più girati non lo poteva sapere, che fosse stato l’ultimo per Clark Gable, il maturo partner che nella finzione cinematografica la contendeva al più giovane ma devastato Montgomery Clift, lo aveva appreso a riprese appena finite, quando il «re di Hollywood» era morto d’infarto. A Marilyn Gable piaceva: era un mito, era un maschio che dava sicurezza, avrebbe potuto essere suo padre, tre elementi che nella vita avrebbe sempre inseguito. «Se non la smetti di arrivare in ritardo ti prendo a sculacciate» le aveva detto un giorno sul set. «Potrei prenderti in parola» era stata la sorridente risposta.
La rivista per cui la Monroe doveva posare era Vogue, la bibbia del Fashion e delle fashion Victims, il fotografo si chiamava Bert Stern, poco più di trent’anni e già famoso per aver rivoluzionato le campagne pubblicitarie. Bert era una firma di Vogue, Marilyn su Vogue non era mai apparsa. L’idea del servizio era di Stern, non pensato però come un qualcosa legato agli abiti. Più semplicemente, voleva fotografare quella che per lui era la bellezza in sé del Ventesimo secolo e la voleva fotografare senza orpelli, vestiti, trucchi, gioielli, al massimo un foulard: la velata nudità di un corpo, insomma, la velata nudità del Corpo per eccellenza. Il set quel giorno dura dodici ore, dalle sette di sera alle sette del mattino, la Monroe è arrivata con cinque ore appena di ritardo, segno che è di buon umore dicono quelli che la conoscono, e il fatto che non ci siano modelli da indossare non l’ha minimamente scomposta, se non per una piccola cicatrice che ha sul fianco destro, fresco retaggio di un intervento chirurgico un mese prima. «Crede si vedrà?» chiede. «Francamente no» è la risposta. «Allora d’accordo». Tutto qui. È una bugia e ogniqualvolta il velo colorato del foulard non la copre, la ferita rimarginata rimane come una dolorosa impurità che tuttavia rende più vero quel corpo talmente perfetto da lasciarti in adorazione come un cretino. Dodici ore, qualche martini, almeno tre bottiglie di Dom Pérignon: la pelle di Marilyn ha lo stesso colore dello champagne.
E Vogue? Business it’s business e se Bert Stern ha avuto la sua occasione e la Monroe il suo lauto compenso alla rivista quel che manca è il servizio di moda... Certo, le foto sono belle, Marilyn è bellissima, ma gli abiti, gli accessori, il trucco... A Vogue il nudo va vestito. Così si rilancia: ti diamo otto pagine, ma questa volta nel bianco e nero dello spazio fashion, mescolando insomma un po’ del colore del primo servizio con le nuove immagini più rigorose del secondo. Se Miss Monroe è d’accordo dice Stern, non ho problemi. L’attrice acconsente ed eccoli di nuovo al Bel-Air, stanza 261, vino rosso questa volta, tre giorni a disposizione, un totale fra la prima e la seconda volta di 2571 fotografie.
Il numero di Vogue andò in edicola il giorno dopo che Marilyn era stata trovata morta nel suo letto, il cinque agosto del 1962, avvelenamento da barbiturici diceva il referto medico, e in qualche modo le foto in esso contenute sono un po’ il suo testamento artistico. Non rappresentano che un numero insignificante rispetto al totale degli scatti fatti da Stern e da allora a oggi il materiale delle due sedute del Bel-Air, di volta in volta selezionato, è servito a nutrire servizi, libri, mostre fotografiche. Nel 1982 il suo autore ne scelse cinquantanove per un museo americano e l’intero lotto, messo poi in vendita da Sotheby’s, venne comprato da un collezionista di New York, Leon Constantiner. È su queste cinquantanove immagini che la Fondation Dina Vierney e il Musée Maillol hanno ora allestito Marilyn Monroe. La Dernière Séance (fino al 30 ottobre) ed è su di esse e sul ricordo sparso di altre simili viste negli anni che si è basato il nostro racconto. Raramente è dato vedere un gioco di seduzione quale quello che allora si instaurò fra il fotografo e la sua modella e va detto che anche le insistenze di Vogue vennero alla fine ricompensate perché ci sono delle immagini della Monroe, i capelli raccolti e un abito nero scollato che la fascia, straordinarie per rigore, eleganza, purezza.

L’insieme è eroticamente malinconico, ma non tanto e non solo perché si sa il seguito della storia e si conosce la breve vita infelice della sua protagonista. Nei nudi di cui si intuisce l’ebbrezza alcolica, mai la Monroe è stata più seducente e più inerme, come se si offrisse e non sapesse né il come né il perché. E non c’è conquista con chi si è già arreso.

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