Diciamolo, quel filmato torce le budella, stringe il cuore. La morte di Namir Noor Eldeen, reporter dell'agenzia Reuters, e del suo autista, Said Chmagh, uccisi da un elicottero americano a Bagdad nel luglio 2007 assieme a dieci altre persone, mi ricorda troppo da vicino quella dellamico e compagno di viaggi Raffaele Ciriello. Raffaele cade ucciso da un carro armato israeliano nel marzo 2002 mentre fotografa e filma un gruppo di militanti palestinesi armati impegnati negli scontri di Ramallah. Namir e Said vengono fatti a pezzi dal cannoncino di un Apache che non distingue tra loro e le persone, alcune delle quali armate, con cui saccompagnano. Namire e Said muoiono perché pilota e puntatore scambiano le loro telecamere e i loro obbiettivi per lanciarazzi anticarro.
Lanalogia dei due episodi mi costringe però a ragionare a mente fredda. Quando mi chiedono comè morto Raffaele rispondo sempre «per un suo errore». E poi aggiungo «fatale». Non è cinismo. È la considerazione dellerrata assunzione che spesso spinge noi giornalisti a reputarci riconoscibili, distinguibili e quindi immuni. Non è così. Non in conflitti spietati, dove non esistono buoni e cattivi, ma solo combattenti decisi a sparare per primi. Non su campi di battaglia dove le tue mosse vengono seguite da apparati capaci di vedere, ma non di analizzare il contesto e distinguerne i protagonisti. Il filmato di bordo dellelicottero trafugato dagli archivi del Pentagono e messo su internet da Wikileak, un sito specializzato nella divulgazione di dossier riservati, ne è la prova. Ascoltandone linizio si capisce che nella zona cè stato uno scontro a fuoco. Guardando le immagini due minuti dopo si vedono distintamente due persone armate di kalashnikov dietro al fotografo e al suo assistente. A quel punto bisogna ragionare non come spettatori al corrente di ogni fatto precedente e successivo, ma come elicotteristi appena arrivati in una zona in cui è in corso uno scontro. Il distinguere con chiarezza due mitragliatori incoraggia a ritenere che anche il teleobiettivo spuntato dallangolo di una casa sia un lanciarazzi.
Certo il linguaggio fa accapponare la pelle. Quel «nice» (bello, carino) usato per commentare una pila di morti o lagonia di un uomo sono un pugno nello stomaco. Quel «potevano lasciarlo a casa» per un bimbo ferito colpevole solo di essere a bordo di un furgone avvicinatosi per portar soccorso risuona oltraggioso e odioso. Ma quel colloquio abominevole si svolge su un campo di battaglia dove i protagonisti sono addestrati a convivere con lorrore. Il tutto nel periodo più duro del conflitto iracheno, allinizio di quelloffensiva - lanciata nel 2007 - per ribaltare le sorti di una guerra quasi perduta. In Irak lAmerica è vicina alla sconfitta e alla totale perdita di consenso anche perché i suoi soldati hanno il grilletto facile e considerano chiunque un possibile nemico. Ma questo è un dato di fatto e in quel periodo tutti i giornalisti impegnati in Irak lo sanno. Al generale David Petraeus e al suo successore in Afghanistan Stanley McChrystal, fautori di una strategia più attenta ad evitare perdite civili, serviranno quasi tre anni di lavoro per cambiare radicalmente laddestramento delle truppe e dei piloti impiegati in Irak e Afghanistan e riuscire oggi a introdurre regole dingaggio meno drastiche. Questo non rende accettabile la morte di un innocente, ma aiuta a comprendere quanto pericoloso fosse nel 2007 girare per la città assieme a gruppi dinsorti.
E per concludere una doverosa precisazione sul filmato. Il Pentagono - pur non divulgandolo - ne aveva già mostrato una copia a un gruppo di rappresentanti della Reuters.
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