Suicidio in strada, la morte ridotta a banalità

La nostra società vive oggi su due piani diversi di percezione dei significati: quello «reale», dato dall’insieme dei valori che si sono creati negli ultimi anni in base alla spinta dei nuovi comportamenti, e quello «ideale», che risuona quasi per istinto in base ai valori di un passato che ha attraversato millenni e che, per quanto superato, non è però mai stato messo apertamente in discussione. Al centro di questo profondo disagio c’è la morte. Non la morte in senso filosofico o teologico, ma la morte così come si è presentata agli uomini fin dall’inizio della loro storia: il cadavere. La morte, infatti, non è «pensabile»; è stato sempre e soltanto il cadavere che ha costretto gli uomini a prendere posizione, e prima di tutto a chiedersi: si risveglierà? Che cosa ne facciamo? Dove lo mettiamo? Ritornerà? Antropologi, storici, etnologi sono rimasti stupefatti davanti alle incredibili manovre che ogni popolo compie, o ha compiuto, intorno al cadavere; non hanno trovato in nessun altro campo tanta preoccupazione, tanta varietà di costumi. Qualsiasi cosa se ne facesse, però, fino a ieri il cadavere ha fatto parte della trascendenza, del Sacro, in quanto rappresentante, testimone, muto ma terribilmente eloquente, del mondo dell’ignoto, dell’aldilà, delle Potenze dell’aldilà; perfino da noi come minimo ci si toglieva il cappello al suo passaggio, il traffico si fermava per dargli la precedenza, le donne si facevano il segno della croce. Se oggi, invece, un cadavere, come è successo a Lecco, non suscita nessun sentimento e nessun segno di rispetto, di pietà, in coloro che gli passano accanto, è perché la morte non è più alla base del sacro, delle religioni, dei legami del gruppo attraverso i comuni Antenati, e il cadavere, di conseguenza, è visto soltanto come un oggetto fra gli oggetti. Tanto oggetto, anzi, da poterlo usare come pezzo di ricambio nei trapianti.
Coloro che se ne meravigliano evidentemente non hanno ancora preso atto della «banalità» assunta dalla morte nella nostra cultura. La vita è tutta «di qua»; l’aldilà non interessa o, almeno, non interessa nelle forme narrate fino a oggi dai miti e dalle religioni. Ci si potrebbe chiedere se sia un male, dal punto di vista della spiritualità e dell’etica, oppure un bene, in quanto non sarebbe più il timore della morte, dell’eventuale punizione nell’oltretomba, a indurre le persone a credere negli ideali più alti e a compiere le azioni migliori. È una discussione, questa, che non è ancora stata aperta, almeno in maniera esplicita; forse proprio perché i responsabili delle varie istituzioni che per un motivo o per l’altro si trovano a dover parlare della morte (gli insegnanti, i medici, i sacerdoti) o ne evitano le implicazioni più problematiche e dolorose, oppure si rifugiano negli stereotipi collaudati da millenni. Tuttavia non si può più rimandare questo tipo di riflessione.

Per i non credenti l’impegno nella vita «di qua» dovrebbe essere perfino più stringente che non per coloro che si affidano al sostegno della fede, ma bisogna riconoscere che il contesto attuale non li spinge in questa direzione, anzi: l’assillo quotidiano alla produttività materiale, l’informazione superficiale al posto di una vera conoscenza, non aiutano il formarsi di una forte e autonoma personalità. Anche per i credenti, specialmente per i cristiani, la discussione su questo tema è difficile. Ma l’importante è iniziarla: senza fughe, senza ingenuità, senza timore.

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