Non ha mai lavorato così tanto in vita sua. La giornata di Gianfranco Fini è cominciata molto presto. Non capita sempre. Ma negli ultimi tempi la storia del doppio lavoro lo sta facendo invecchiare. Ci sono cose che neppure Bocchino può fare, che pure queste estate saltava di costa in costa per dare una volto alla congiura anti Cav. Questa volta il capo deve farsi sentire di persona e se c’è bisogno di promettere o rinfacciare favori deve farlo a brutto muso. Non è più tempo di mascherarsi da uomo delle istituzioni. La battaglia con Berlusconi è qui, bussa alla porta, e Fini non è né un arbitro né un notaio. È il leader dei ribaltonisti, quelli che con una manovra tutta di palazzo vogliono cancellare il voto popolare. Tocca a lui acchiappare i deputati dubbiosi e chissenefrega della Costituzione e della prassi parlamentare. Tanto la procura che indaga contro ignoti sul calciomercato degli onorevoli non metterà mai gli occhi su di lui. Sono gli stessi che hanno seppellito quell’affaruccio familiare di Montecarlo. Quindi, al lavoro. Anzi al doppio lavoro. La mattina capo di partito e il pomeriggio presidente della Camera.
Questa è la giornata di Fini in doppio petto. I problemi sono tanti. Il 14 dicembre doveva essere un porto sicuro. Poi, come al solito, quando si tratta di giocare sul serio quello, Berlusconi, riscopre forza e energia. Il risultato è che si trova a un passo dalla vittoria. A Montecitorio c’è una risacca di indecisi, dubbiosi, che cominciano a vedere la sfiducia come un capriccio personale. Che fa il gruppo misto? Ecco che allora Fini incontra nel suo ufficio di presidente della Camera Giorgio La Malfa e Paolo Guzzanti. Voteranno la sfiducia? Sì, no, forse. Troppi dubbi. Perfino il buon Pontone, diviso tra il cuore e la ragione, non sa cosa farà, anche se a palazzo Madama la partita sembra persa. Si mette male. Si trovasse almeno un modo per far venire a Montecitorio le ragazze con il pancione. Tre voti bruciati. Arrivano Casini e Cesa. Conciliabolo. Ma le spine sono in casa.
Le rotture di scatole arrivano da Colleferro. Moffa quando c’è stato lo strappo non ha saputo dirgli di no, ma continua a non riconoscersi in Futuro e Libertà. Lo vede come il partito di Bocchino, Granata, Briguglio e Farefuturo. Fini gli farà capire bene chi comanda. Moffa e la sua banda di colombe devono votare la sfiducia. Convoca il disfattista nel solito appartamento a Montecitorio, che ormai sembra un ufficio di reclutamento coatto, del tipo: vieni qui che ti spiego come si vive. Manca solo il manifesto in stile zio d’America con l’indice minaccioso e la scritta I want you. Il povero Moffa si ritrova così di fronte al capo, con al fianco gli ex ministri Ronchi e Urso. Moffa resta in piedi, resiste. Quando esce non dice una parola. Quello che è successo si percepisce nelle parole di Urso: «La giornata è lunga e la notte porta consiglio». Al Senato Marcello Pera grida che questo via vai al vertice dell’altra Camera è fuori da ogni regola: «È una violazione gravissima e sistematica della Costituzione. E ora costituisce un precedente. Ogni presidente si sentirà autorizzato a fare e disfare partiti».
Moffa viene chiamato e richiamato più volte. La seconda insieme a Menia, Patarino e Consolo. Si decide di far scrivere a Moffa una proposta per Berlusconi. Il succo è questo: «Dopo il voto al Senato dimettiti e poi discutiamo». Il Cav risponde con un appello a tutti i moderati, ma a dimettersi non ci pensa affatto. La giornata finisce con un vertice negli uffici di Farefuturo. È l’ultimo atto per ingabbiare le colombe. Tra un po’ sapremo come finirà.
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