Cronaca locale

Sul palco il «Bergman del rock» Rivive il mito della West Coast

La California di fine anni Sessanta è la terra promessa per i nuovi cantautori post hippie che, dopo la sbornia rock, ripiegano sull’intimismo bucolico. Ci sono i reduci dell’estate dell’amore e quelli che arrivano un po’ da ogni parte d’America per raccontare il loro mondo. Un mondo diverso sia dal folk del Greenwich Village che lo ha preceduto sia dalla canzone popolare di Woody Guthrie e Pete Seeger. Un mondo che nella ballata incrocia il country, il folk e il rock, un mondo che dà per acquisite alcune battaglie del passato e parte con più sogni ma forse meno illusioni. Attraverso i brani di questi artisti abbiamo «sognato la California» assolata, romantica, impegnata e battagliera del dopo Woodstock. E i nostri sogni avevano le liriche voci di Crosby (antesignano del country rock nei Byrds), Stills Nash&Young (Stills e Young pionieri del nuovo suono nei Buffalo Springfield), di James Taylor, di Gene Clark e Gram Parsons, della regina Joni Mitchell e di tanti altri nomi (tutti diversi tra loro e divisi in mille rivoli e mille scuole, dal folk urbano alla scuola canadese al puro country rock) tra cui spicca la figura di Jackson Browne, che ha conquistato sul campo il titolo di «Bergman del rock» per il realismo agrodolce con cui racconta i sentimenti dell’America on the road.
Browne, eterna faccia da ragazzino nonostante le rughe incipienti, è stato un grande autore (ha scritto Take it easy per gli Eagles e numerose hit per la Nitty Gritty Dirt Band, Tim Buckley e persino per Nico quando lasciò i Velvet Underground) e ha inciso album storici come Saturate Before Using (con classici come Doctor My Eyes e Jamaica Say You Will), For Everyman, Late For the Sky e ancora oggi non smette di battersi con le sue canzoni in difesa di cause politiche, ecologiste, umanitarie. O, a volte, suona per il semplice gusto di suonare, di creare l’atmosfera giusta come farà giovedì al Teatro Ciak di Milano, tappa obbligata del suo tour mondiale. All’arco dei suoi brani sempreverdi aggiunge le frecce del recente Time the Conqueror, raccolta di ballate intense e attuali che ben si inseriscono nel suo caleidoscopico repertorio. Browne è fedele a se stesso - senza ripetersi - e non fa sconti a nessuno. Il suo motto è: «Non posso smettere di cantare per le miei idee; un cantautore deve assumersi delle responsabilità, non giocare alla star che insegue i soldi e le ragazzine». Lui (di origine tedesca, che ha debuttato a New York con i buoni uffici di Andy Warhol) è diventato un paladino della California, ha continuato a incidere dischi (l’anno scorso anche il live Solo Acoustic), a battersi contro l’inquinamento e il nucleare con gli spettacoli «No Nukes», a tifare per Kerry con la tournée «Vote for change». Un irriducibile idealista? «Un uomo fiero di essere cresciuto negli anni Sessanta, con cose belle e cose brutte che hanno reso il mondo più libero. A quei tempi vivevamo la storia, oggi si vive attraverso la televisione».
E lui torna sempre sulla strada, mitigando le botte e il crollo delle sue illusioni con la forza poetica delle sue esperienze e delle sue ballate, ora eseguite in versione acustica, solo voce e chitarra, ora con il colorito accompagnamento della band. Lui guarda il passato per rileggerlo con gli occhi dell’attualità. Per questo ha pubblicato una versione in dvd, con inediti del suo classico Running On Empty, corredato da immagini e foto scattate durante la registrazione «perché ho voluto testimoniare la vita on the road dell’epoca». Non si ritiene comunque un sopravvissuto, come gli altri suoi compagni d’avventura. «Crosby, Young, James Taylor, Joni Mitchell, gli Eagles, l’anima della West Coast è più viva che mai.

Siamo ancora l’alternativa al conformismo».

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