Sul palco le faide aziendali dei «Pretendenti» di Lagarce La scalata al potere nel dramma sociale dell’autore francese La commedia affidata da Ronconi al regista Carmelo Rifici

Jean-Luc Lagarce, chi era costui? Rispondiamo: un autentico uomo di cultura oltre che di teatro. Dal momento che nella sua breve parabola terrena (è scomparso nel 1995, a soli trentotto anni) non ha trascurato nessun campo dello scibile: dalla prosa al romanzo, dal cinema all'opera lirica fino a divenire post mortem un piccolo classico. Al punto che oggi, in Francia, è più rappresentato di Molière e Racine messi insieme. Come ci informa puntualmente la cronaca. Che tuttavia non ci spiega le ragioni dello straordinario successo di massa arriso a quest'uomo schivo e solitario che tra l'altro, a differenza di Bernard-Marie Koltès cui è stato spesso avvicinato per via dello status di vittima dell'Aids che lo accomuna all'autore di «Quai Ouest», non ha avuto una vita né romantica né avventurosa. Il motivo sarà allora da rintracciare nella struttura stessa delle sue pièce di cui «I pretendenti», in scena al Piccolo Teatro Studio da oggi fino al 18 febbraio, per la regia di Carmelo Rifici, rappresenta la prima tessera che viene offerta al pubblico italiano. Prima che, tra un mese, approdi sullo stesso palcoscenico «Giusto la fine del mondo» nella messinscena di Luca Ronconi, cui si deve l'ambizioso progetto di far conoscere e, se possibile, propagandarne l'originalità espressiva. Che si condensa nei suoi dialoghi recisi come un rasoio, sottesi di un'impagabile ironia, che ci dicono parecchio non tanto sulla condizione umana ma sulla lingua astratta e feroce che siamo soliti usare nei rapporti sociali fino a divenirne noi stessi schiavi senza nessuna possibilità di appello. È ciò che puntualmente accade nei «Pretendenti», un titolo che potrebbe far pensare addirittura a un dramma storico sull'onda di Shakespeare o dei tragici greci. Mentre invece ci troviamo alle prese, nella provincia più ottusa e retriva, con le infime beghe e i sorprendenti voltafaccia di un'équipe che deve eleggere, per votazione comune, il nuovo direttore generale di un consiglio d'amministrazione. In un clima che, alla lontana, si rifà con sapido humour al Gogol del «Revisore», ci troviamo immersi dall'inizio alla fine nelle pastoie più sciocche e più dure a morire della nostra comunicazione. Così, le parole che vengono scambiate all'interno della cellula aziendale dove si organizza il gioco al massacro dei candidati all'ambita carica in discussione vorrebbero dire l'esatto contrario di ciò che sfugge di bocca. Ma sono frenate, deviate, concusse e frantumate da quella generica convenzione, salottiera e falsa, che informa la regola del vivere sociale. Fino all'afasia, fino alla perdita del senso logico della comunicazione, fino al tristissimo riflusso delle sillabe che, nel continuo assurdo concatenarsi dei verbi e degli aggettivi, perdono qualsiasi punto di riferimento.

In un gioco che se, alla lontana, può ricordare Ionesco più da vicino si ricollega al Pérec della «Vita, istruzioni per l'uso». Per merito, sulla scena, di Massimo De Francovich, Paola Bacci ed Elena Ghiaurov, araldi e portavoce di questo squisito divertissement.

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