Ma sul voto aleggia sempre la maledizione del Vietnam

Il Vietnam è maledetto. Puzza ancora di napalm, puzza di sconfitta. John McCain spera. Vuol essere il primo, l’unico a vincere la storia. Perché lui c’è stato, come Al Gore e John Kerry. Sconfitti tutti e due, sconfitto anche lui nel 2000 alle primarie repubblicane. L’America ricorda Saigon, il mito di una guerra persa e diventata un tormentone cinematografico. Poi però frega sempre quelli che in nome di quella guerra corrono: cercano la presidenza da veterani, da eroi, da patrioti che hanno combattuto anche se forse non era giusto. Vincono solo nei film. In Independence Day, in AirForceOne, in altre pellicole: arriva il presidente eletto perché ha messo i piedi e il cuore nel Mekong. Le storie vere sono diverse: pare che l’essere stati in Vietnam a combattere l’unica guerra perduta dagli Stati Uniti nel Ventesimo secolo, la guerra che ha alimentato più polemiche, più divisioni, più racconti, più rivisitazioni, più analisi, sia un handicap. Come a dire senza dirlo davvero che se hai partecipato alla sconfitta sei vinto in partenza.
L’America adora mandare alla Casa Bianca ex soldati: Ulysses Grant, vincitore della Guerra Civile, fece due mandati. Dwight Eisenhower, generale dello Sbarco in Normandia e della vittoria sul nazismo, ne fece altri due. Il Vietnam no. Ogni volta i suoi eroi finiscono per essere considerati mezzi militari, mollicci e spesso traditori. John Kerry, democratico, decorato per essere stato ferito vicino a Saigon, fu messo sotto accusa dai repubblicani che contestavano il ruolino di servizio e gli rimproveravano di avere, tornato dal fronte, criticato il conflitto e il Paese. La campagna anti-Kerry, candidato democratico, favorì la rielezione di George W. Bush, repubblicano che durante gli anni del Vietnam faceva la Guardia Nazionale in America. «Imboscato», gli dissero. Anche Al Gore aveva fatto quella guerra. Da giornalista militare, è vero, ma al fronte. Anche lui trombato. Anche lui e non Bill Clinton che invece mentre Al era in Oriente, stava tranquillo negli Stati Uniti.
Adesso tocca a McCain: pilota della U.S. Navy, abbattuto nel cielo di Hanoi, finito col paracadute nello stagno della città, catturato e rimasto prigioniero dei vietnamiti. Uno abituato a lottare, contro i nemici, contro il cancro, contro Bush. Otto anni fa fu sconfitto alle primarie repubblicane dall’attuale presidente. Ci provò a fare una campagna da reduce contro un figlio di papà imboscato. Perse. Oggi è l’unico che può ricordare al Paese di essere stato uno che ha combattuto per la patria. Mike Huckabee non ha combattuto, Rudy Giuliani neanche. Mitt Romney addirittura era in Europa, durante la guerra in Vietnam: era in Francia a fare il missionario per la chiesa Mormone. Lui c’era, invece. A differenza anche dei democratici: Hillary Rodham Clinton perché è donna, Barack Obama e John Edwards perché erano troppo giovani. McCain ci prova.

Primo, ma ancora non ultimo: l’anagrafe dà una chance a qualcun altro. Per il 2012, eventualmente. O anche per il 2016. Poi arriverà il resto: la generazione della guerra del Golfo. Poi quelli dell’Irak. Il generale David Petraeus prenota un posto.

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