Il suo pop vestito di jazz accende piazza del Duomo

Al Cornetto Free Music Festival una platea sterminata applaude l’ex Police assente da tre anni. In scaletta tutti i grandi classici, da Roxanne a Walking on the moon

Cesare G. Romana

da Milano

Poco importa che fossero centomila o centocinquantamila, a salutare il ritorno milanese di Sting, ieri nel bollente catino di piazza Duomo. Gran concerto, a suo modo, come l’ex Police ci ha abituato, e peccato che la piazza non offrisse la miglior cassa di risonanza a uno spettacolo dove, fatalmente, la logica dell’Evento prevaricava sulle esigenze dell’ascolto. E l’entusiasmo un poco aprioristico sull’attenzione consapevole che alla grande musica s’addice.
Rientra, questo, nei meccanismi intrinseci ai grandi raduni estivi, e dunque pazienza. Consoliamoci con i grandi applausi ottenuti da Sting e, prima di lui, dai gruppi che l’hanno preceduto sul palco, presentati da Ambra Angiolini e da Alvin. Anzi tutto ecco i Fiction Plane, band capitanata dal figlio dell’artista, Joe Sumner, ventinove anni, bellino, volonteroso e non troppo dissimile, nello stile e nella voce, al più celebre padre. Poi ecco i Mattafix, duo composto dall’anglocaraibico Marlon Roudette e dall’angloindiano Preetesh Hirji, portatore d’un soul elettronico denso di richiami etnici e di riferimenti bluesy. Ancora, ecco i giovani Monopolio di Stato, piacevoli e applauditi, e il rock mediterraneo dei Negramaro, i sei musicisti salentini scoperti l’altr’anno da Caterina Caselli: sempre bravi e trascinanti, ma forse coinvolti in una sovraesposizione dalla quale dovrebbero guardarsi, potrebbe insidiarne il nascente successo.
Per tutti, comunque, consensi affettuosi dalla platea. Ma l’attesa, ovviamente, era tutta per Sting. Che, esonerato da urgenze promozionali - il nuovo album è ancora in via di stesura, il precedente Sacred love è uscito ormai da tempo - ha potuto spaziare su e giù per un repertorio vastissimo, poliedrico, disseminato lungo trent’anni di carriera e di storia, quale pochi possono vantare: si va dal pop-reggae condiviso negli anni Settanta con i Police alla svolta solistica inaugurata da The dream of the blue turtles, album-miracolo di splendide melodie, echi jazz, colori intensi e preziosi. Poi ci fu il memorabile incontro, a Umbria Jazz, con Gil Evans, altri album di alterno livello, la scoperta dei «modi» arabi - un esempio per tutti la sensuale Desert rose -, latini, asiatici nel segno di una word music di nobilissima vena. E la frequentazione del grande repertorio colto: la rivisitazione di Caro mio ben, aria barocca del Giordanello, gli studi severi sulle Suites violoncellistiche di Bach, il lavoro sulle musiche rinascimentali di John Dowland, che dovrebbe occupare il prossimo album.
Donde un repertorio nato da un ampio ventaglio di culture e da salutari inquietudini, che avrebbe richiesto una sede più raccolta e un’acustica meno pasticciata. Del resto, Sting ha fatto di tutto per sollecitare il consenso d’un pubblico straordinariamente vasto, in prevalenza giovanile, poco sensibile alle sfumature e molto ai successi consolidati. Di qui ecco molti brani dei Police - a partire dagli inevitabili Roxanne, Sincronicity II, Message in a bottle - e altri della carriera solistica, scelti prudentemente tra i più «commestibili». Rifatti, poi, nel segno d’una avveduta riattualizzazione: grazie anche all’apporto d’una band assai collaudata, con Dominic Miller e Lyle Workaman alle chitarre e Abe Laboriel alla batteria.
Bel colpo d’occhio - col concorso d’immagini proiettate e di fascinosi giochi di luce - e musiche di grande suggestione hanno così assicurato al concerto il suo fascino, secondo una ricetta nel cui utilizzo Sting è da anni maestro. Ecco Fragile, che conclude il concerto con la sua melodia suadente e serpentina, An englishman in New York, Walking on the moon, Desert rose, Fields of gold, If I ever lose my faith in you fino ai brani salienti dell’ultimo Sacred love, che include anche Shape of my heart, dal concerto dedicato alla tragedia dell’11 settembre, e che ha restituito al musicista inglese il prestigio e la nobiltà di stile che negli anni erano sembrati appannarsi.


Centomila persone almeno - difficile quantificare con precisione assoluta, in un concerto a ingresso gratuito - hanno coronato ogni brano, ogni assolo, ogni rullo di batteria con ovazioni tonanti. Null’altro c’era da aspettarsi, in un’accalorata serata di fine giugno, da un beniamino delle folle. E così è stato, fino al rosario finale dei bis.

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