Svolta in Cina, indennizzo alla madre di una vittima della rivolta di Tienanmen

È la prima volta che ciò avviene: 7 mila euro per un quindicenne ucciso dalla polizia nel Sichuan

Svolta in Cina, indennizzo alla madre di una vittima della rivolta di Tienanmen

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Aveva 15 anni e già lavorava in fabbrica. Un ragazzo operaio di nome Zhou Guocong tornava a casa dal lavoro in bicicletta a Chengdu, capitale del Sichuan. È il 6 giugno 1989. Da meno di 48 ore è scattata la repressione sulla piazza Tienanmen a Pechino e la polizia è stata messa in stato d’allarme in tutta la Cina per prevenire, o reprimere, qualsiasi dimostrazione pubblica che estenda al resto del Paese gli imbarazzanti disordini che hanno scosso la capitale. Non sappiamo ancora se Zhou stesse contestando qualcosa in quel momento, ma un agente, evidentemente, deve averlo pensato. Lo arrestano, lo sbattono in una cella, lo ammazzano di botte. Dalla sede della polizia esce il suo cadavere, con tutti i segni del pestaggio, lividi e ferite. Il resto del mondo, naturalmente, non ne ha notizie, e neanche il resto della Cina: i riflettori sono tutti puntati su Pechino, e anche lassù li stanno spegnendo a uno a uno.
Zhou Guocong è tornato alle cronache ieri, nel momento in cui sua madre ha ricevuto dalle autorità, dopo più di 15 anni di richieste, l’indennizzo per l’uccisione: l’equivalente di 7mila euro. Un sollievo per la donna, ma soprattutto, forse, un precedente. Zhou è la prima vittima della repressione ufficialmente riconosciuta come tale. Potrebbe essere una giornata campale per le associazioni per i diritti civili in Cina, l’apertura di un «regolamento di conti» che, anche solo finanziario e in cause civili, prenderebbe l’aspetto di un’ammissione di colpa da parte del governo e di una riabilitazione delle vittime.
Anche per questo, o proprio per questo, gli interessati e gli attivisti sembrano non crederci troppo. In particolare un’altra madre, Ding Zilin, un’insegnante in pensione che vive a Pechino. Suo figlio, almeno, non l’hanno massacrato di botte. Si sono limitati a sparargli e a stenderlo secco. La madre non si è mai arresa e, vivendo nella capitale, ha avuto più occasioni di altri genitori per manifestare pubblicamente la propria protesta. Evidentemente sull’esempio delle «madri della Plaza de Mayo» di Buenos Aires, ha costituito un’associazione analoga a Pechino, in modo da mettere assieme le richieste di risarcimenti, ma soprattutto di tenere qualche luce accesa su un evento di cui si parla molto di più on Occidente che in Cina.
Fra l’altro la signora Ding sta compilando una lista delle vittime della Tienanmen, che ufficialmente non è mai stata pubblicata. Nei primi giorni il regime parlò di 23 vittime, tra gli studenti e, curiosamente, di 300 morti tra i soldati, quelli che avevano le armi. Voci raccolte negli ospedali, nelle prime ore, parlavano, probabilmente esagerando, di 1.500 morti e 10mila feriti. Il conteggio della signora Ding è arrivato in questo momento a 186 morti. Per la verità uccisi, almeno i più, non nella piazza, ma nelle strade adiacenti, quelle percorse dai carri armati che andavano a stroncare la pacifica rivolta. La 27ª Armata, pare. Arrivarono per strade larghe, incontrarono fragili barricate, aprirono il fuoco sui civili disarmati, press’a poco a casaccio.
Alcuni carri voltarono poi le armi verso i balconi, le finestre da cui la gente osservava e, anche lì, spararono per uccidere. Infine i blindati attraversarono la piazza passando sui corpi che erano sul selciato, i vivi e i morti. Un cingolo investì la Statua della Libertà, un monumento in gesso e carta che i dimostranti avevano eretto negli ultimi giorni. Poi su Tienanmen si spensero le luci.
La Cina, soprattutto il governo, ma anche la maggior parte degli abitanti, aveva altro da pensare: le radicali riforme economiche che avevano cominciato a riportarla sulla strada di un benessere ignorato da secoli, i progressi visibili, le città ricostruite, il prestigio aumentato, le esportazioni da capogiro. E, sì, diverse libertà in più. Non la Libertà, ma tante libertà. Che sarebbero state impossibili, è il punto di vista del regime, se non si fosse «ristabilito l’ordine». Lo ha detto anche il penultimo leader, Jiang Zemin, sulla piazza, faccia a faccia con l’allora presidente americano Clinton in visita: «Se il governo cinese non avesse preso provvedimenti risoluti in quei giorni, il disordine avrebbe prevalso e il Paese non godrebbe della stabilità di oggi».


Dunque il regime può permettersi di indennizzare qualcuna fra le vittime, soprattutto se geograficamente «marginali». Ding Zilin è la prima a escludere una riabilitazione politica. Almeno finché saranno in vita gran parte delle Madri della Tienanmen.

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