Tanzi in aula fa il Ponzio Pilato «La truffa? Non sapevo niente»

MilanoAssoluzione con formula piena «perché il fatto non sussiste» o perché comunque Calisto Tanzi non l’ha commesso. Questo chiedevano ieri i difensori del fondatore di Parmalat, al termine di un processo durato tre anni: e non si capisce cosa sia a non essere mai successo, se il disastro di Parmalat, la peggiore voragine della storia industriale e finanziaria italiana, o se non siano mai esistite le frottole sesquipedali raccontate per anni alla Borsa, alla Consob e ai risparmiatori del mercato globalizzato. Ma qualunque cosa sia accaduta, una certezza i difensori - anche se con qualche timidezza - la offrono al tribunale: Tanzi non ne sapeva nulla. E per convincere i giudici che la faccenda è andata davvero così si scomoda e appare in aula proprio lui: il cavaliere del Lavoro Calisto Tanzi, che di quel gruppo - di cui nulla sapeva - era fondatore, presidente e principale azionista.
Tanzi arriva, e chiede la parola. Sono le ultime battute del processo: la pubblica accusa ha già parlato, e per Tanzi è arrivata la richiesta di tredici anni di carcere; gli altri difensori hanno già detto la loro, in un valzer di foga e di tecnica, di cerini passati di mano in mano, di barili scaricati. Ieri è toccato all’imputato numero uno. Prima di Natale, esaurite anche le repliche, arriverà la sentenza.
Tanzi si presenta di buon’ora, per il suo ultimo tentativo di convincere i giudici. Legge ventisette pagine scritte grandi grandi, per tenere a bada l’emozione e la presbiopia. Il tono è sommesso, quasi genuflesso («attendo con doveroso rispetto e sottomissione la vostra sentenza»), come si confà ad un uomo non più giovane chiamato a tirare le somme («in questa fase della mia vita il ricercare il rispetto di me stesso nell’ambito della mia sola coscienza è l’obiettivo che mi sono proposto»). Ma la sostanza è ben diversa. Perché, seduto sotto l’affresco di un arcangelo vendicatore, Tanzi torna a offrire ai giudici la «sua» verità, quella su cui sta arroccato fin dai mesi trascorsi in carcere: «mai ho ideato, mai ho avuto idea che potesse nascere quella che è stata definita “la grande truffa in danno dei risparmiatori”». Mai ha immaginato che i titoli-spazzatura di Parmalat finissero nelle tasche di cittadini qualunque. Decine di migliaia di persone in tutto il mondo sono uscite rovinate dall’acquisto dei titoli di Collecchio. «Ma io non ho voluto né ideato né ipotizzato che ciò potesse accadere».
Per dare almeno una parvenza di verità a questa versione, Tanzi è costretto a infierire su se stesso, dipingendosi come una sorta di Pinocchio che vagava per un Campo dei miracoli affollato di gatti e di volpi, pronti a sedurlo con le loro lusinghe e i loro trucchi. Il Cavaliere ne ha un po’ per tutti. Per le banche americane, che - è il caso di Chase - lo convinsero chissà come a investire in quel business sudamericano che segnerà l’inizio della catastrofe, e poi lo dissanguarono - e qui punta il dito su Bank of America - a colpi di finanza creativa e di tassi da usura. Per i suoi collaboratori, Fausto Tonna e l’avvocato Zini, già usciti limitando i danni dalla scena del processo: dovrebbero essere loro, dice, a spiegarvi i rapporti con le banche e le balle raccontate ai risparmiatori.
Basterà, a convincere i giudici? Difficile.

Ma, nel caso che le cose dovessero andare male, Tanzi ieri si dilunga nel raccontare ai giudici come, perché e con quali canali i fondi neri di Parmalat finanziarono per anni - su indicazione di «un banchiere» - il mondo politico. Non si capisce bene cosa c’entri. Forse niente. Forse soltanto a ricordarlo, nel caso qualcuno se lo fosse dimenticato.

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