L'odore del sigaro inizia a farsi sentire appena ci si accomoda in platea. Proviene dal monumentale avana che Giuseppe Battiston brandisce durante tutto il suo monologo, ma che accende scaltramente alcuni minuti prima di entrare in scena. D'altra parte «Orson Welles' Roast», lo spettacolo in cartellone all'Elfo Puccini fino a giovedì 1 aprile (info: 02-00660606, www.elfo.org), è tutto giocato sulle fragranze, sui sapori e sugli umori di un personaggio dalla voracità leggendaria, di un uomo mai sazio di cibo, di successo e di vita che nel teatro e nel cinema ha trovato la possibilità di espandere il suo incontenibile ego, regalandoci in cambio dei memorabili capolavori. Eppure l'Orson Welles interpretato in modo sbalorditivo da Battiston (a cui è andato il meritatissimo premio Ubu come miglior attore italiano del 2009) ha proprio il timore di essere dimenticato, o perlomeno di non essere ricordato per quelle che lui ritiene le sue opere migliori: non «Quarto potere» o «La signora di Shangai», ma una messinscena di «Macbeth» con duecento attori neri, la versione musical del «Giro del mondo in ottanta giorni» con brani originali di Cole Porter, lo splendido e sfortunatissimo «Otello». Spettacoli tanto ingegnosi quanto sproporzionati, di una grandeur insostenibile e di un perfezionismo assillante, che hanno messo il loro autore sul lastrico, obbligandolo ad accettare parti in film di serie B pur di ripianare i debiti. C'è un retrogusto amaro in questo individuo che si aggira pesantemente sulla scena in accappatoio bianco, suda a dismisura, trangugia whisky, accenna a improbabili diete, ci intrattiene con patetici giochi di prestigio e parla in un italiano quasi letterario, anche se screziato da un inequivocabile accento americano. E' il sapore di un uomo in cui si sono manifestate tutte le controindicazioni del genio: non tanto la sregolatezza, che in fondo è la più innocua, ma soprattutto quella rara mescolanza di vanità e lucidità che rende inattuabile qualsiasi ipotesi di appagamento. Volto cinematografico tra i più apprezzati degli ultimi anni, interprete di film di successo come «Pane e tulipani», «La bestia nel cuore» e «Giorni e nuvole», Battiston rivela sul palcoscenico delle facoltà medianiche: la sua immedesimazione con Welles infatti è così perfetta da risultare a tratti inquietante. Perfetti anche certi accorgimenti registici che rendono suggestiva e di grande impatto una scenografia minimale in cui l'oscurità è abilmente dosata con la luce, la scenotecnica è usata come un complemento d'arredo e, per un trucco di autentica magia teatrale, una melanzana può trasformarsi in un'astronave prima, in un microfono poi.
Solo la drammaturgia, scritta dallo stesso Battiston assieme al regista dello spettacolo, Michele De Vita Conti, sembra qua e là prendere una piega illustrativa, giustapporre le singole narrazioni degli eventi, invece di integrarle in un racconto fluido e compatto, accontentarsi talvolta di enumerare le imprese, le stravaganze e i tic del personaggio, invece che sondarne l'enigma di fondo. Ciò non toglie che, quando terminano le raffiche di applausi e si spengono le luci, venga voglia di appostarsi fuori dai camerini per chiedere l'autografo: a Orson Welles, naturalmente.Teatro e cinema nel segno del grande Welles
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