Il teatro muore di noia. Gli aiuti? Solo ai migliori

Il risultato finale dell’analisi del reclamo alla Agcom, sul tema della concorrenza nello spettacolo dal vivo, recitava più o meno così: «Appaiono gravi le lesioni alla regola della concorrenza nel mercato dello spettacolo dal vivo, così da far temere influssi non benefici anche sul pluralismo della informazione». E il governo replicava quasi immediatamente inviando agli organi costituzionali interessati (Conferenza Stato-Regioni, Anci, ecc. ) la raccomandazione ad aprire tavoli di confronto sui temi individuati. Questo alla faccia di chi continua in malafede a pensare che spettacolo dal vivo, concorrenza e mercato non hanno nulla in comune.
Eppure non è accaduto nulla. Come sempre in Italia non accade nulla. Poi è arrivato il «provocatore» Alessandro Baricco, seguito da un’importante inchiesta del Giornale, e la discussione si è aperta. Chissà dove è arrivata? A livello del presidente del Consiglio? Certamente a livello del sottosegretario straordinario Letta. E il ministro? E i sindaci? Gli intellettuali e i direttori dei teatri pubblici con poche eccezioni, si sono incazzati. Ma perché, poi?
Cosa ha detto di così drammatico Baricco se non prendere atto che: il sistema dello spettacolo in Italia non accontenta nessuno (autori, artisti, pubblico, imprenditori), non si rinnova mai, non produce talenti, tende noiosamente a ripetersi e a chiudersi anch’esso in casta.
Ditemi che tutto questo non è vero! E da che dipende? Sono tante le cause e difficili da elencare. Tra le maggiori il clientelismo, il corporativismo veterosindacale e il provincialismo: insomma l’eterno scambio Peppone e Don Camillo.
Un assessore comunista alla Regione, un sindaco socialista, uno cattolico alla cultura e via così! Ma vogliamo scherzare? Non voglio scomodare Internet, la video-art, il teatro virtuale, l’avanguardia: in questo contesto si rivoltano nella tomba anche Shakespeare, Goldoni e Pirandello... È sbagliato oggi parlare dell’economia nella cultura? Ne parlavamo già 25 anni fa nell’Associazione Economia e Cultura con i noti «sovversivi» Vittorio Ripa di Meana, Trizzini, Trimarchi. Per dirsi cosa: che l’evoluzione del mondo comportava una complessiva evoluzione dello spettacolo dal vivo verso la maturità e verso l’esigenza di una migliore utilizzazione delle risorse.
Certo, c’erano e ci sono ancora larghe aree della popolazione che hanno bisogno di essere acculturate. Ma un grande lavoro di base è stato fatto dalla scuola e dalla televisione. Perché dunque oggi i più bravi non dovrebbero competere in campo aperto?
Baricco dice: non più soldi al teatro! Ma poi, lo pensa davvero? O non dice piuttosto: non più soldi a qualsiasi stupidaggine, sia fatta dall’ultimo dei figli illegittimi dell’assessore o proposta da qualche centro sociale di periferia purché sufficientemente sporco e blasfemo da meritarsi la definizione di «trasgressivo e di sinistra» (o di destra cambia poco). E aggiunge Baricco, perché non trattare il teatro e i teatranti non più come bamboccioni un po’ piagnoni ma come imprenditori creativi, competitivi a livello europeo, capaci di rischiare? È chiaro che in questo contesto, come in tutto il resto del mondo lo Stato, gli enti locali, le istituzioni avranno interesse perché ciò che questi soggetti faranno sia innovativo e in grado di sviluppare cultura.
Saranno privati, questi soggetti ma c’è bisogno anche di soggetti pubblici, virtuosi, che abbiano a cuore i giovani, i meno fortunati, le periferie urbane. Non come ora che tutti, privati e pubblici, si occupano di tutto. E allora, tornando dove abbiamo cominciato, regole e ruoli che consentano l’accesso di tutti alla cultura ma anche che premino i migliori.

E non che si premino indiscriminatamente tutti senza un minimo di confronto con i risultati anche economici: se si fa così davvero si decreta la morte di un teatro già agonizzante (perché noioso) ma anche così vitale ogni volta che affronta la sfida dell’oggi e del futuro.
* Presidente Teatro Eliseo
di Roma

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