Il teatro tiene in vita il dialetto e tramanda le nostre tradizioni

Bisogna portare i nipotini a vedere le commedie in genovese

Gentilissimo Dottor Lussana, mi permetto inviare un mio modesto contributo sul dibattito che Il Giornale da qualche tempo ospita circa l’identità ligure. Son zeneize e no ghe mollo…
La celebre rima del «Ma se ghe penso» riassume sinteticamente l’autentico spirito della nostra comune identità fatta di sapori, di ricordi, di odori, di suoni.
Il gusto irripetibile del pesto, della farinata e della focaccia, il ricordo affettuoso di mia nonna che canta la filastrocca natalizia, l’odore pungente del mare in burrasca e del basilico sulle fasce, il suono aspro ed autentico della parlata ligure: tutto questo «menestron» è la nostra identità ligure. È forse riduttivo? Non credo perché le tradizioni, la cultura e la storia si estrinsecano nel quotidiano, nelle piccole abitudini di tutti i giorni, nelle consuetudini.
Non sono ligure perché nato a Genova, ma perché mi sento parte di una comunità che ha caratteristiche peculiari ed irripetibili, perché sento la comunanza con chi condivide i miei gusti e le mie gioie, le mie fatiche e le mie ansie, i miei pregi ed i miei difetti. Così siamo, che ci piaccia o meno e ciò non sottende alcun aulico proclama politico o alcuna rivendicazione storica, è solo una semplice constatazione della realtà.
Sono fiero di essere ligure, ma ciò non mi impedisce di provare simpatia ed affetto per le tradizioni e la lingua di un’altra regione d’Italia o d’Europa, anzi ritengo che la mia identità ligure sia parte importante ed irrinunciabile della più ampia comunità italiana ed europea.
Tuttavia il mio spirito di «teatrante» mi spinge ad una ulteriore riflessione: la parlata «genovese» (e così non entro nella diatriba dialetto/lingua che lascio agli esperti) costituisce la prima e più importante esternazione della ligusticità, ne riassume le caratteristiche, ne esalta le peculiarità e ne sottolinea le sfumature che l’italiano non sa rendere. Tuttavia il genovese (e par tale intendo il ligure in tutte le sue accezioni locali) deve restare una lingua viva, cioè parlata, per assolvere pienamente alla sua funzione ed è purtroppo vero che sempre meno sono i nostri concittadini che lo parlano.
Insegnarlo a scuola? Fare corsi di genovese per gli adulti? Impegnare la televisione in una operazione di recupero? Forse, ma c’è un modo semplice, attuale e già presente nel quotidiano, il teatro. Il teatro non solo contribuisce a mantenere vivo il genovese, ma anche trasmette emozioni, tradizioni e storia della nostra Liguria.
L’amore per la nostra regione e per la nostra parlata va dimostrato nei fatti e immodestamente penso di aver fatto la mia parte, recitando per anni in genovese, ospitando in teatro moltissime compagnie dialettali ed infine intitolando la sala a Gilberto Govi e l’auditorium a Gianni Barabino.


A chi si proclama paladino della nostra identità ligure chiedo, almeno, di sostenere con la propria presenza le compagnie che recitano in genovese, di portare a teatro qualche amico che non lo parla e magari anche il nipotino che neppure lo comprende.
*Amministratore
Teatro della Gioventù

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