Marta Ottaviani
da Istanbul
Dopo dieci giorni di contestazioni e di violenze, adesso la vicenda della caricature contro il Profeta Maometto comincia a mostrare il suo volto peggiore. Che riesce perfino a oltrepassare i confini e le competenze territoriali. Ieri la Procura generale dell'Iran ha fatto sapere che, se non provvederanno le magistrature dei Paesi dove sono state pubblicate, si assumerà il compito di «perseguire e punire» i responsabili delle vignette contro il Profeta. Il che vuol dire incorrere nel reato di blasfemia e rischiare la morte. Il comunicato è stato pubblicato sul quotidiano Aftab. «Tenuto conto dei regolamenti della magistratura della Repubblica islamica - si legge nella nota - l'Iran si ritiene competente a perseguire questo crimine».
Non manca, da parte della Procura di Teheran, una raccomandazione ai «colleghi» europei: se saranno loro a giudicare gli autori del crimine, sono pregati di infliggere la pena più severa. Ma nella Repubblica islamica dell'Iran, a questa curiosa concezione di giurisdizione se ne accompagna una, poco lodevole, di «par condicio». Ieri su un sito locale è stata pubblicata la prima caricatura sull'Olocausto. E alcuni media del mondo islamico, fra cui Al Jazeera e Al Arabya, hanno riportato la notizia che verrà addirittura organizzato un concorso a premi per chi realizzerà la vignetta migliore sul tema. L'iniziativa è sostenuta dalla Casa della caricatura dell'Islam e dal quotidiano Hamshahrì, che è uno dei più venduti nel Paese ed è edito dal comune di Teheran (il cui ex sindaco è un certo Mahmoud Ahmadinejad ndr). La vignetta pubblicata ieri è suddivisa in due parti. La prima si intitola: «Auschwitz 1942». In essa si vede un ebreo, con la stella di David sulla schiena, che entra nel campo di concentramento portando un fagotto. Sopra il cancello è scritto: «Il lavoro porta la libertà». Nella seconda, intitolata «Israele 2002», si vede lo stesso ebreo che, con un fucile a tracolla, si avvia verso un campo simile a quello di Auschwitz, dove apparentemente, oltre il reticolato, è in corso una guerra. Questa volta sopra il cancello è scritto «La guerra porta la pace».
Intanto, in Pakistan, il presidente Perwez Musharraf se la prende con chi invoca la libertà di stampa. «Non capisco - ha detto - come una persona civilizzata possa usare la scusa della libertà di stampa e ferire i sentimenti di oltre un miliardo di musulmani. Questo significa portare la libertà di stampa all'estremo. I responsabili non hanno pensato alle conseguenze per la pace e l'armonia mondiali». E, all'interno del Paese, ieri la situazione non era certo tranquilla. A Peshawar, nel nord, 6.000 studenti hanno manifestato in modo violento all'ormai solito grido «Allah Akbar», lanciando pietre contro negozi e uffici. La polizia ha dovuto fare largo uso di lacrimogeni per bloccarli.
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