Tele e colori per esorcizzare la sofferenza

Nella mostra «Il disagio della pittura» la Fondazione Mudima ospita, con una sessantina di opere, la prima vera antologica di Alessandro Papetti

Mimmo Di Marzio

La prima vera antologica di Alessandro Papetti, artista «milanese doc» classe 1958, è una risposta che ammutolisce la critica abituata in questi anni a recitare il de profundis della pittura; un po’ come quelle celebri giocate che regalava Maradona dopo una settimana di critiche per i suoi stravizi.
Tant’è. La mostra, che comprende 60 opere tra cui molte inedite dei primi anni ’90, assume un tono quasi provocatorio negli spazi della Fondazione Mudima di Gino Di Maggio (via Tadino 26), palcoscenico tradizionalmente poco incline all’olio su tela e certo più famoso per la compartecipazione alle avanguardie del dopoguerra come il movimento Fluxus, il Nouveau Réalisme, l'Happening, l'arte interattiva, i movimenti Gutai e Mono-Ha, la Videoarte.
Provocatorio appare anche il titolo dell’esposizione: «Il disagio della pittura». Disagio di che? Per il critico Gianluca Ranzi, il disagio «sta nell’effetto stesso del “dire l’indicibile”, del veicolare un messaggio a prescindere dalle consuete griglie linguistiche di riferimento». Ma forse il disagio arriva direttamente soltanto dal potere, rimasto intatto, della pittura ad esprimere la sofferenza.
E la sofferenza intrinseca nel vero gesto artistico esplode da e nelle grandi tele di Papetti: ora nei nudi carnali e disperati, ora negli interni svuotati e inconsci, ora nel silenzio dei paesaggi industriali, ora nei porti abbandonati. Anche gli spazi urbani, le architetture metropolitane percorse da automobili senza tempo sembrano sempre permeati di un’atmosfera surreale e quasi spettrale.
Nelle sale della Fondazione vengono ripercorsi in circa sessanta lavori le diverse fasi dell’opera dell’artista che vede la figurazione dissolversi, attraverso un viaggio profondo nel colore e nel segno, fino ad assumere una dimensione di pura essenza, come avviene per il ciclo sull’Acqua. A questo elemento sacro e primario, «strumento al contempo di connessione e separazione», l’artista dedica un gigantesco trittico di cinque metri per sei realizzato appositamente per la mostra. L’opera, intitolata «Piscina», rappresenta di fatto un approfondito studio sul colore e sulla luce, nonostante la presenza di figure «in scurto» che navigano evanescenti nei vari toni di blu di Prussia.
Al piano inferiore, la serie dei nudi ha in questi giorni lasciato spazio al ciclo dei ritratti, volti allucinati «fotografati» da prospettive angolari. In questi lavori è il segno a prevalere sul colore, un segno veloce e inquieto che sembra quasi scarnificare le figure in una dolorosa solitudine. Il pathos trasuda dai colori lividi e dalla tensione dei corpi che abbandonano ogni sensualità per dichiararsi in una nuda verità interiore.
Le opere di Papetti, soprattutto quelle legate alla figura umana, non rinnegano ma semmai riaccendono i valori della tradizione ritrattistica dell’Ottocento e del Novecento italiano. Ma le citazioni stilistiche, presenti nelle torsioni «baconiane» dei nudi, nelle pennellate di luce che rimandano alla scuola di Giovanni Boldini, o nel segno ossessivo alla Giacometti, nulla sottraggono alla freschezza di una pittura densa di partecipazione emotiva.
«Nella follia o nella sofferenza degli altri si vive la propria - sottolinea l’artista - la si esorcizza e la si butta fuori, piuttosto che rischiare di esplodere.

E il mio uso del colore dipende strettamente dal fatto che quello che mi interessa non è raccontare, né definire con precisione virtuosistica un oggetto o una figura. Anche la pennellata veloce, come l’assenza di colori definiti e contrastanti, serve a permettere che l’energia nel quadro non si blocchi in un punto preciso, ma scorra circolarmente».

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