Un tempo si chiamava sudditanza psicologica

I vecchi sospetti sulla Juventus venivano snobbati ma in realtà Torino teneva in pugno più di mezza Italia

Da un po’ di giorni sfilano davanti agli occhi dei lettori le poco edificanti vicende di larga parte del nostro universo calcistico nazionale. L’epicentro - grazie all’affiatata coppia Moggi-Giraudo (sull’opera complicemente coadiuvante di Bettega avrei più di un dubbio...) - è il sistema Juventus. Inutile nasconderselo, la lunga stagione di Luciano Moggi presso il sodalizio bianconero si è conclusa nel peggiore dei modi: facendo ormai revocare in dubbio tutti quei successi conseguiti durante la sua gestione, ben oltre le stigmatizzazioni della magistratura comprovate dal notissimo profluvio di intercettazioni telefoniche relativo ai campionati dell’ultimo biennio. I pronti interventi di John Elkann (il nipote più amato dall’avv. Gianni Agnelli, come ci ricordano perennemente trillanti le giornaliste al seguito, rapite dal fascino del bel giovanotto) non hanno dissipato i dubbi in merito a più radicali coinvolgimenti (né d’altra parte Luca Cordero di Montezemolo plaudente nei confronti dei giudici di Napoli appare credibile fino in fondo).
In realtà gli sfolgoranti successi della squadra torinese erano «chiacchierati» da moltissimo tempo, da quando cioè la Juventus non poteva che vincere in quanto vessillo, sul territorio nazionale, dello stesso sistema Fiat. I sospetti, agitati ripetutamente da diversi personaggi (fra i quali il noto regista Franco Zeffirelli) si perdevano per strada o venivano sopportati come una sorta di isteria snobistica da «bastian contrario», perché la concentrazione di potere emanante dall’industria torinese era troppo influente nel panorama italiano per consentire che qualcuno potesse fare una tara effettiva in merito agli allori delle sue sponsorizzazioni sportive che avevano contribuito a crearle attorno un’aura di simpatia e di popolarità che sovrastava comunque i risentimenti di coloro che a torto o a ragione dovevano sottostare a quel predominio. D’altronde la dirigenza Fiat (ai massimi vertici) è sempre stata brava abile e accorta a saper incarnare momenti sportivi di notevole rilievo: si pensi attualmente al prestigio derivante dall’acquisizione (a suo tempo) della scuderia Ferrari, il cui valore precipuo risiede nel fatto che non ha rivali in Italia e diventa dunque di fatto una bandiera nazionale (senza voler sottovalutare i valori tecnici delle auto e l’abilità dei piloti che sono messi in campo per contrastare la concorrenza dei teams esteri). Nonostante le luci derivanti dalla casa di Maranello, le ombre sono non poche e hanno cominciato a profilarsi quando è emersa all’attenzione e alla riflessione dell’opinione pubblica la crisi del sistema Fiat. Non solo le difficoltà dell’azienda che, comunque, fino al momento delle proibizioni derivanti dalle regole comunitarie, ha beneficiato a più riprese di rilevantissimi aiuti da parte dello Stato, ma soprattutto il peso evidente delle distorsioni che il sistema Fiat ha imposto nei decenni dopo la seconda guerra mondiale allo sviluppo del paese, fondato sulle quattro ruote. Il fatto stesso del quasi totale ricorso all’energia derivante dal petrolio per far marciare l’Italia (anche industrialmente) se si collega solo in parte alla motorizzazione, suggerisce però quanto questa abbia pesato creando una precisa mentalità e attivando (anche) cespiti ragguardevoli che sappiamo ormai benissimo quanto abbiano influenzato e condizionato la politica e le sue scelte, ancor prima che queste imponenti risorse monetarie diventassero oggetto di interessi letterari e politici di opposizione (cfr il romanzo incompiuto di Pier Paolo Passolini Petrolio).
D’accordo! Le manfrine e gli intrallazzi poco chiari nel mondo calcistico ci sono sempre stati ma, almeno per quando se ne sa, hanno sempre rivestito un ruolo marginale. La «Torino connection» appare qualcosa di più: è un metodo generalizzato di taroccare a più non posso. Essa sorge all’interno di una presa di potere sull’ambiente sportivo e sugli organi preposti a dirigerlo che esisteva già da tempo anche se non si esprimeva in forme così degenerate. I signori di un tempo avevano più stile e si astenevano da pratiche pericolosamente vicine alle conventicole pseudocamorristiche. C’era indubbiamente sudditanza psicologica nei loro confronti (noblesse oblige!) ed essi se ne giovavano: il rispetto delle forme era però scrupolosamente conservato. La situazione che viene emergendo dalle indagini non può essere sottovalutata, invocando il «solito» moralismo o, come ha fatto un noto giornalista sceneggiatore, nella penultima puntata di «Controcampo» parlando di «risentimento degli sconfitti».

Esiste infatti un preciso paragone con le vicende di Tangentopoli.
Non vorremmo fare del «wagnerismo da osteria» ma per la «vecchia signora» è un vero e proprio crepuscolo degli dei, simbolo forse di forme di decadimento che vanno comunque ben oltre il libello sportivo.

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