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L'intifada è già arrivata a casa nostra

Perché i musulmani che non si vogliono integrare rappresentano la preda ideale per i reclutatori jihadisti

L'intifada è già arrivata a casa nostra
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Stesso taglio di capelli, da “maranza” con borsello al collo. Stesso modo di parlare. Stesse urla e stessi movimenti sconnessi al ritmo della musica hip hop araba sparata a tutto volume nelle casse. Stessa voglia di sentirsi gruppo da parte di chi è (e si sente) minoranza. I ragazzi che sfilano alla manifestazione pro Palestina di Udine rappresentano la nuova generazione di immigrati presente nel nostro Paese. Quella che, teoricamente, si sarebbe dovuta integrare meglio perché è nata e cresciuta qui ma che, in realtà, ha deciso di rimanere nella gran parte dei casi un corpo estraneo. E i cortei che in questo anno di guerra hanno riempito le nostre città lo dimostrano. Basta ascoltare i cori per rendersene conto: "Cantano i popoli in rivolta, scrivono la storia. Intifada fino alla vittoria". E poi: “Se non cambierà, intifada pure qua”. E non si tratta solo di parole. Perché le cause dei Paesi arabi hanno sempre attecchito tra gli immigrati, spesso radicalizzandoli.

Francia, anni Novanta. Un periodo difficile, in cui il Gia, il Gruppo islamico armato nato in Algeria nel 1991, rappresenta una minaccia concreta. Arruola chi può, soprattutto tra i casseur, i teppisti che nulla hanno da perdere. Che sono déraciné, perché si trovano in una terra che li ospita ma della quale non si sentono parte. Tra questi ce n’è uno in particolare. Si chiama Khaled Kelkal ed è il “primo jihadista europeo”, per usare un’espressione di Khaled Fouad Allam. Nasce nel 1971 in Algeria ma, di fatto, cresce in Francia, visto che la sua famiglia si trasferisce lì quando lui è ancora un neonato. A scuola è quasi uno studente modello, tanto che riesce ad entrare in un liceo tecnico. Ma è qui che iniziano i problemi. Perché Khaled non vuole far parte della società francese. La rifiuta (“dicevo tra me e me che l'integrazione totale era impossibile!). Diventa così un teppista. Non accetta tutto ciò che per lui, a torto o a ragione, rappresenta qualcosa da ricchi. A volte distrugge le auto, altre le ruba. Finisce in carcere, dove incontra un certo “Khelif”, che lo recluta nel Gia. Gli dà tutto ciò di cui ha bisogno: un gruppo e un motivo per vivere (e pure per morire). Inizia a sparare alla gendarmerie ed è coinvolto nell’uccisione dell’imam Sahraoui, a Parigi, perché troppo moderato. Piazza un’autobomba di fronte a una scuola ebraica per compiere un massacro, che viene però evitato grazie ad una provvidenziale campanella che suona in ritardo. Viene ucciso in uno scontro con lo Squadrone di intervento paracadutisti.

Questa è la storia di Khaled Kelkal, il primo jihadista europeo. Ma è pure quella di tanti giovani come lui, immigrati di seconda e terza generazione, che hanno iniziato il loro percorso e che poi si sono rivelati terroristi della porta accanto. Lupi solitari che si sono mossi nell’ombra e che poi ci hanno colpito. Perché non si sono voluti integrare.

Perché l’islam più radicale li ha usati contro di noi. Con il nostro permesso. Anzi: con il nostro consenso. “Allah akbar”, cantano oggi in piazza mentre invocano l’intifada, la rivolta. Che è già qui, come cantano in corteo.

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