Se apriste una scuola privata in Nigeria, in Ghana, in India avreste lavoro assicurato. Secondo le ricerche di James Tooley, docente di Politica dell’istruzione all’Università di Newcastle (e autore del saggio The beautiful tree), nelle nazioni dell’ex «Terzo mondo» le scuole private raccolgono una domanda di educazione che quelle pubbliche lasciano irrisolta. Ieri Tooley era a Milano per il workshop che l’Istituto Bruno Leoni e la fondazione «Milano per Expo 2015» hanno dedicato al tema.
Professor Tooley, in India il 17 per cento degli asili, delle scuole primarie e secondarie è privato. Il dato stupisce. Com’è possibile?
«La mia materia di studio, e di insegnamento, riguarda l’impatto che il ruolo del governo ha sull’istituzione scolastica, e posso rispondere: quel che accade non solo in India è la reazione al fallimento delle politiche pubbliche».
L’India, che con la Cina è la «tigre asiatica» per eccellenza, fa di tutto per incrementare lo sviluppo economico e fallisce proprio sulla scuola?
«Non sono convinto che l’aumento dell’istruzione privata sia legata allo sviluppo economico. Altrimenti dovrebbe accadere anche in Cina. E non accade. La scuola pubblica indiana è bloccata da diversi fattori: la sindacalizzazione eccessiva e il malessere che si va diffondendo verso la scuola statale, dove è frequente trovare insegnanti che sorseggiano il tè o leggono il giornale davanti ad alunni che non fanno nulla perché abbandonati a se stessi. È un problema di gestione, di trasparenza, di performance. I genitori si rivolgono allora alla scuola privata, dove è più facile che gli insegnanti insegnino».
Ivan Ilich commenterebbe: questi genitori preferiscono pagare per un servizio anziché impegnarsi politicamente nel cambiare le cose.
«Hanno forse torto? Da una parte c’è una strada facile, anche se implica sacrifici economici, dall’altra una molto incerta: chi mi assicura che il mio impegno politico avrà il successo che spero? Meglio uscire subito dal sistema pubblico difettoso, investire in un percorso plausibile e risolvere il problema. Così che mio figlio inizi fin da subito ad apprendere le capacità utili a procurargli un futuro migliore: come la lingua inglese, il cui insegnamento è la caratteristica principale delle scuole private indiane».
È questo il futuro scolastico di queste nazioni?
«Ne sono abbastanza convinto. Ho studiato a lungo quel che accade nel segmento alto e in quello più povero della scuola privata, un po’ a tutte le latitudini. Ci sono compagnie di investimento che hanno aperto fino a 80 scuole private di alto livello nel mondo, dagli Usa al Libano, così come esistono casi di singole scuole private con rette molto basse sorte spontaneamente in contesti poveri. Entrambi i segmenti non sono “sperimentazioni”, ma cercano di soddisfare esigenze sempre più diffuse. Contrariamente alle scuole statali, queste non omologano gli studenti, non si appiattiscono sulla costruzione di curriculum standard, ma modificano l’offerta in base alla domanda».
Le famiglie povere hanno richieste davvero così strutturate?
«Sì. Non vogliono che la scuola sia un parcheggio per i figli o che insegni semplicemente la disciplina, ma desiderano che trasmetta capacità spendibili in futuro e addirittura che la domanda di tali capacità cresca. Quando una scuola privata ha successo, viene copiata. E così via. Tutto questo non è un macro-fenomeno geopolitico. Si tratta, invece, di famiglie povere che cercano la soluzione a un problema. E la trovano.
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