La teste Omega rivoluziona il processo

Acquisite agli atti le dichiarazioni di Stefania Ariosto che indicano l’ex compagno Vittorio Dotti come il suggeritore delle sue accuse

da Milano

Quaranta pagine che possono essere lette in molti modi. E che potrebbero provocare qualche contraccolpo anche in camera di consiglio. Il processo d’appello Sme, ormai in zona Cesarini, si ferma un istante per caricare a bordo le dichiarazioni fatte in aula, il 3 novembre, da Stefania Ariosto. Affermazioni taglienti perché la Ariosto, che quel giorno doveva difendersi dall’accusa di aver calunniato il giudice Rosario Priore, ha scaricato sull’ex fidanzato, Vittorio Dotti, la responsabilità della sua esplosiva testimonianza nel 1995. Ora quel verbale entra nel processo Sme e ne illumina, almeno in parte, la genesi. «L’acquisizione delle dichiarazioni di Stefania Ariosto è un atto molto importante - sostiene l’avvocato Alessandro Sammarco, difensore di Cesare Previti - la teste ha svelato circostanze fondamentali che consentono di capire perlomeno a grandi linee che a fronte delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di Previti c’è stato tutto un periodo di gestione occulta e di manipolazioni mai esaminate».
In verità, la difesa di Previti aveva chiesto molto di più alla corte: un confronto fra l’Ariosto e Dotti, l’audizione del maggiore della Guardia di finanza Antonio Martino per chiarire una volta per tutte l’origine delle confidenze della teste, la deposizione di altre persone per ricostruire la «macchinazione politica» che avrebbe fatto da sfondo al racconto dell’ex compagna di Dotti. La corte risponde con una sfilza di no, ma fa largo a quelle 40 pagine. Pagine che hanno fatto sobbalzare tutti i penalisti impegnati nel dibattimento.
Vittorio Dotti, attraverso la vicenda dei libretti al portatore, «ha denunciato e creato la circostanza affinché io diventassi un testimone». Senza quella mossa tattica, «io non avrei sporto nessuna denuncia». E dunque l’operazione toghe sporche non sarebbe mai cominciata e non sarebbe stato arrestato l’ex capo dei gip di Roma, Renato Squillante. Insomma, sarebbe Dotti, secondo questa sorprendente versione, «il vero confidente». Ancora, seguendo questo impianto revisionista, l’Ariosto spiega che non fu lei «a bussare alla porta della Guardia di finanza», ma furono i militari a venire da lei. Perché?
Così, dopo dieci anni di indagini e polemiche, la Ariosto confessa una sorta di peccato originale, anche se a un metro dal traguardo. Esagerazioni, secondo il sostituto Procuratore generale Piero De Petris: anzi, parole «estrapolate». Per lui le accuse sono farina del sacco della Ariosto, Dotti ha la responsabilità di non averle segnalato i rischi cui si sarebbe fatalmente esposta. De Petris rilegge un passaggio di quel verbale: «Come è possibile che una persona nella piena facoltà di intendere e di volere conosca, sappia, possa sapere a cosa va incontro?» Per l’Ariosto, «il proprio compagno di vita, il proprio fidanzato, il leguleio Vittorio Dotti» avrebbe dovuto avvisare «la sua compagna dicendole: “Cara, guarda non ti conviene”. E invece no. Aveva preparato tutto lui». Dotti avrebbe poco elegantemente abbandonato la donna al suo destino, ma non l’avrebbe teleguidata. E Domenico Salvemini, legale della presidenza del Consiglio, liquida il verbale e l’enfasi di Sammarco con due frasi: «In realtà non c’è nulla di nuovo.

Le difese cercano pretesti per non finire il processo».
Il dibattimento riprende. Senza il paracadute della ex Cirielli, accantonato in Parlamento da un emendamento dell’Udc. La sentenza potrebbe arrivare intorno al 26 novembre.

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