Che ne è stato della nostra cultura, della nostra letteratura, del nostro teatro, della nostra idea di spettacolo (ma anche di lettura, di stile, diciamo pure: di bellezza) negli ultimi trent'anni? Dove abbiamo trascinato la grandezza, il rischio impavido, la spregiudicatezza, l'acribia che unisce rigore e follia determinando il sorgere di un evento artistico davvero libero? Cosa ne abbiamo fatto dell'impegno? Che ne è della forza destabilizzante dell'arte, della sua divina capacità di non farci mai stare con la coscienza a posto? Dove ci siamo spinti in questa determinazione satanica di non dover offendere nessuno, di dover parlare solo di temi socialmente riconosciuti come rilevanti, ma senza rischio vero, che è quello di dover intraprendere una strada al buio, di non avere garanzie, di non vedere più nessuno, né ora né mai, che ti dia una patente di eroe, di martire?
Sono questi i pensieri e le domande che, tra commozione profonda e profonda rabbia, hanno accompagnato la visione (proprio di una visione si tratta) dell'Edipus di Giovanni Testori, riedizione del capolavoro realizzato trent'anni fa dalla stessa compagnia (Lombardi-Tiezzi) che lo ripropone oggi, ospite - grazie all'intelligenza del suo direttore artistico Claudio Longhi - del Piccolo Teatro di Milano, fino a domenica 30.
Fermi tutti. Non stiamo parlando soltanto uno spettacolo bello, molto bello, magari il più bello tra quelli che il teatro milanese e nazionale possa offrire in questo periodo. Stiamo parlando di un'opera splendida trent'anni fa e che, riproposta nel mondo di oggi, nella sua forza devastante diventa l'indicatore, il termometro dello stato di coma profondo della nostra cultura. Trent'anni fa spettacoli come Edipus erano possibili, non frequenti ma nemmeno così scandalosamente rari. Chi, come chi scrive, lo vide allora aveva negli occhi altre cose straordinarie. Per me Sandro Lombardi e Federico Tiezzi appartenevano a una scia luminosa di pensieri ed esperienze teatrali che già mi/ci avevano abituato a cose grandi. Chi aveva potuto assistere a La Classe Morta di Tadeusz Kantor poteva, assistendo (allora) a questo Edipus, lodare il livello cui l'arte teatrale era giunta. C'erano Ronconi, Strehler, Bob Wilson, Peter Brook e tantissimi altri maestri della scena, cui si aggiungeva un'epoca drammaturghi dei quali non si è più vista nemmeno l'ombra in seguito (Testori, Bernhard, Koltès, Muller) e critici che erano enciclopedie viventi come Roberto De Monticelli e Franco Quadri. E c'era, soprattutto, chi considerava la provocazione, la sfida non solo opportune ma anche doverose per chi si dichiara artista. Spesso in contrasto tra loro, questi uomini possedevano qualcosa che non esiste quasi più: l'autorevolezza.Perché tutto questo non esiste più? Ogni tanto accendo la tv e mi capita di vedere qualche grande vecchio e di sentirlo parlare, e di nuovo - sarà il tono di voce, sarà una semplicità conquistata duramente, sarà la capacità di ponderare le parole - io sospendo il mio bla bla esteriore e interiore. Nel 1994 che credito davo, che so, a Corrado Augias? Non molto, temo. Adesso lo ascolto e vorrei che non finisse mai, non perché io concordi con tutto quello che dice, ma per lo svolgersi nelle sue parole, nel suo atteggiamento, di un discorso che ha necessitato di tanto tempo per svilupparsi. Dove abbiamo cacciato l'idea benedetta secondo cui la cultura prima di essere un sistema è un cammino difficile e impervio verso la conoscenza di noi stessi?
Io non voglio difendere il passato, non m'interessa il passato. Edipus è un'opera del 1994, ma la sua bomba esplode oggi, la voragine che apre è retroattiva e pone domande alle quali tutti siamo demandati a rispondere. Io nel 1994 c'ero, ero sulla scena culturale, avevo già pubblicato cinque libri, avevo vinto premi importanti. Insomma c'ero, come c'erano tanti altri presenti tuttora.
Perciò la domanda non è rivolta ad altri, è rivolta a me stesso: come abbiamo fatto, come ho fatto a rovinare tutto? Ad abbassare così tanto il livello? A credere come un gonzo che il primo comandamento della cultura è di non fare male a nessuno? Io non dubito che tante cose siano meglio oggi di allora - tante, ma non l'idea di cultura; tante, ma non l'idea di stile e di bellezza; tante, ma non l'esercizio della libertà creativa...
Oggi assisto spettacoli e leggo libri incapaci di ferirmi e dunque incapaci di farmi crescere. Spettacoli e libri (anche belli, bellissimi, non dico di no) che mi fanno stare sempre e comunque alla parte dei buoni, dei giusti, degli intelligenti. Denunciano talvolta ingiustizie, ma solo le ingiustizie degli altri ossia di coloro che non vedranno mai quegli spettacoli né leggeranno quei libri. E così io resterò con le mie illusioni di sempre, quelle che mi confermano nell'idea di essere buono e giusto. Oggi tutti facciamo un gran parlare di polarizzazione, e purtroppo è così: il mondo si sta riempiendo di rabbia, di rancore, e non è soltanto la rabbia e il rancore "degli altri". Ma se la cultura si riduce a una specie di intrattenimento virtuoso, ecco spuntare un'altra polarizzazione: tra coloro che non vi partecipano (né ora né mai, date le premesse) e coloro che, partecipandovi, ne ricevono una specie di giustificazione. Questo rende sempre più impossibile l'esercizio di quell'humanitas, che sta alla radice dell'arte. Quell'humanitas che indusse Eschilo, pochi anni dopo le Guerre Persiane, a riportare gli odiati persiani, autori di lutti e orrori, nel cuore di Atene per dire ai buoni, ai virtuosi, ai civili ateniesi: noi non siamo diversi da loro.
Non diamo colpa alla politica, alla sua naturale miopia, ai suoi obiettivi grossolani, agli assessori, ai sovrintendenti e ai direttori generali di nomina partitica e spesso del tutto incompetenti. La colpa non è loro, la politica fa il suo mestiere e fa quello che riesce a fare...Ma queste sono derive il senso della cultura, o sta fisso nella mente di chi la fa, o possiamo chiudere bottega.