Roma

Tevere, il regno della «balena» d’acqua dolce

Tevere, il regno della «balena» d’acqua dolce

Giampiero Milanetti

Il Siluro dei fiumi dell’Est, detto la «balena d’acqua dolce». La Tilapia, il protagonista della pesca miracolosa del lago di Tiberiade. Carpe cinesi vegetariane, importate come «diserbanti biologici». Pesci gatto «camminanti» africani, divoratori di carcasse. E, poi, ancora: anguille del Mar dei Sargassi, Gardon francesi, Carassi Aurati (i pesci rossi), alicette del Nord Europa, pesciolini asiatici e americani, e altro ancora.
Il Tevere è un crocevia di pesci d’ogni continente, una sorta di acquario internazionale, di zoo acquatico, dove nuotano e si fronteggiano specie animali mai entrate a contatto prima. «Nell’ultimo decennio - spiega Lorenzo Tancioni, del laboratorio di ecologia sperimentale e acquacoltura dell’Università di Tor Vergata - il Tevere ha cambiato definitivamente faccia. Ormai sembra un braccio del Danubio, con ospiti americani, asiatici e, ultimamente, anche africani». Delle circa 25 specie di pesci che vivono nel basso corso del fiume - sottolineano gli esperti - soltanto 7 o 8, ormai, sono tipiche del corso d’acqua. Tutte le altre vengono da lontano, anche dall’altro capo del mondo. Ma come sono finiti nel fiume di Roma, tutti questi pesci esotici? Molti ci sono arrivati dai laghetti sportivi. I gestori di questi specchi d’acqua artificiali introducono di continuo nuove specie di pesci, grandi e facili da catturare, per venire incontro ai gusti dei pescatori della domenica. Alcuni di questi impianti sportivi acquatici sono collegati al Tevere o si trovano vicini alle sue sponde, per cui, durante le piene invernali, i pesci dei laghetti possono facilmente finire nel fiume. C’è anche chi getta nel Tevere pesci pescati nei laghetti artificiali e che non ha voglia o la capacità di cucinare. Diverse specie esotiche sono state introdotte - involontariamente - con i ripopolamenti, dalle amministrazioni provinciali. Queste, per risparmiare, comprano, nell’Est Europa, stock di uova o pesciolini in cui, accanto alle specie pregiate, possono trovarsi quelle più economiche, come il siluro o la piccola, ma vorace, pseudorasbora.
A preoccupare di più ecologi e biologi è però l’arrivo del Siluro. Presente nel Tevere da almeno una quindicina di anni, ormai, considerate le dimensioni (fino a un metro e ottanta) e il peso (60 chili). Siluri di quest’età divorano quantità industriali di carpe, tinche, scardole e anguille, tutte specie tipiche del Tevere e commestibili. E, a differenza di quanto succede del suo ambiente naturale, non ha nemici né competitori. A 3 mesi d’età, il Silurus glanis è cresciuto abbastanza per sfuggire agli attacchi dei più grandi (130 centimetri per 27 chili) predatori del Tevere, come il luccio e la danubiana sandra (o luccioperca), sempre più rari, tra l’altro, nel nostro fiume e, per di più, in competizione tra loro. E non c’è certo da star tranquilli, se si considera che il siluro, poi, vive quanto un uomo e che - come tutti i pesci - non smette mai di crescere. Sembra un siluro in scala ridotta ma viene dal Continente Nero: è il Pesce gatto africano. Anch’esso senza scaglie, con la pelle nuda ricoperta da muco e con delle antenne mobili che gli pendono dalla bocca, larga e piatta. Ma questo pesce, anche se più piccolo del siluro (arriva a 16 chili di peso e a 140 centimetri di lunghezza), ha una marcia in più. È, infatti, l’unico pesce che...cammina! Può infatti uscire dall’acqua e muoversi sulla terraferma come un serpente, aiutandosi con le pinne. E senza soffocare. Ha infatti una specie di primitivi polmoni spugnosi sulle branchie che assorbono l’ossigeno dall’atmosfera. Per impedire fughe, gli allevamenti sono circondati da reti alte mezzo metro. «Ma nel Tevere - rassicura Paolo Tito Colombari, autore del “Manuale della pesca”, edito dall’Agenzia regionale per lo sviluppo e l’innovazione dell’agricoltura nel Lazio - il pesce gatto africano non supera l’inverno. Per fortuna, considerata la sua voracità». La sua fame è così insaziabile che, se non trova più pesci vivi da ingoiare, prende a divorare a gran morsi le carcasse di quelli morti: una vera iena dei fiumi, insomma, odiata dai pescatori. Che invece apprezzano moltissimo (al punto di averla introdotta nel Tevere) l’Abramide, un pesce europeo, piatto e ovale come una sogliola «verticale», con una piccola bocca ad aspiratore con cui scava delle buche per nutrirsi. Nel Tevere si è adattato nel tratto terminale del fiume, dove l’acqua è più calda e la corrente è più debole. Motivi della sua popolarità, la facilità con cui abbocca a qualsiasi esca, le dimensioni generose (arriva a pesare 9 chili per 75 centimetri di lunghezza) e la sua carne, considerata molto buona, ma molto spinosa.
Ancor più apprezzata (e, perciò, allevata in ogni continente) è la Tilapia. Ad accrescere la popolarità di questo pesce è l’alone di sacralità di cui è circondato. Sembra, infatti, essere stato proprio lui il protagonista del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, sul lago di Tiberiade. Non a caso, le sue terre di origine sono Israele, la Siria e la Giordania (e gran parte dell’Africa), dove riesce a sopravvivere perfino in laghi salati con un palmo d’acqua. Purché non sia più fredda di 15 gradi.
Resiste senza problemi agli inverni romani, l’animale acquatico più comune nelle case italiane. «Il carassio dorato (il pesce rosso) si è ormai adattato perfettamente, nel Tevere» assicura Paolo Tito Colombari, che è docente di Idrobiologia e Scienze ambientali e biologiche all’università della Tuscia. I pesci rossi vivono nei tratti del fiume dove la corrente è più lenta e crescono più alghe. Qui, raggiungono dimensioni inarrivabili nelle bocce di vetro: quasi un chilo di peso e 45 centimetri di lunghezza. E diventano dei «camaleonti», perdono il bel rosso vivo o arancio e prendono un colore bruno, giallo-verdastro.

L’eterna tinta del Tevere.

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