Thompson, altro che i nostri radical-chic

Essere un intellettuale di sinistra, con le dovute eccezioni, in Italia equivale ad arruolarsi in un esercito ove adempiere a un certo numero di obblighi quali firmare appelli, vigilare sul fascismo incalzante, gridare alla censura e nei casi irrimediabili fare la morale al popolo bue.
Per questo un personaggio come lo statunitense Hunter S. Thompson (1937-2005) è impensabile dalle nostre parti. Ed è per questo che solo di recente gli editori italiani, soprattutto B.C.Dalai, mostrano interesse per le sue opere. Una è molto famosa anche da noi, in virtù della riduzione cinematografica di Terry Gilliam con Johnny Depp protagonista: Paura e disgusto a Las Vegas (nei tascabili Bompiani, con appendice sulla cultura psichedelica firmata tra gli altri da Alessandro Baricco e Fernanda Pivano). Altre meriterebbero uguale successo, ad esempio il romanzo-reportage Hell’s Angels (in catalogo presso Shake e B.C.Dalai), un ritratto formidabile delle gang di motociclisti americani, frequentati a lungo dall’autore. Molto bella è anche l’antologia di scritti giornalistici Paure, deliri e la grande pesca allo squalo (B.C.Dalai editore, pagg. 284, euro 18,5, in libreria dal 29 giugno). Quando si dice «giornalismo» si intende «giornalismo gonzo», come lo definì Hunter S. Thompson. Niente di più lontano dai fatti separati dalle opinioni, regola anglosassone felicemente infranta da molti giganti del giornalismo anglosassone (Tom Wolfe, Truman Capote, Norman Mailer, Joan Didion per limitarci ai classici). Qui i fatti ci sono ma sono raccontati in prima persona con lo stile e la verve del grande narratore.
Thompson sfugge agli schemi italici. Uomo di sinistra, anche radicale. Eppure individualista: impensabile la sua presenza all’interno di un branco che rilancia le parole d’ordine del momento. Uomo di sinistra, e orgoglioso patriota. Cosa molto diversa dalla statolatria (o partitolatria) imperante tra i nostri registi, scrittori e cantanti. Potete immaginare un membro della nostra intellighentia levare un inno alle armi? No. Thompson adorava le armi. Riteneva il loro possesso un diritto indiscutibile. Il cittadino, sosteneva, deve potersi difendere. Non dai ladri. Dallo Stato, che un giorno potrebbe decidere di allungare le mani e pretendere troppo potere. Amava così tanto pistole e polvere da sparo che, sapendosi vicino alla morte, avvenuta per altro in circostanze misteriose, come ultimo desiderio chiese agli amici di sparare le sue ceneri nello spazio con un cannone. Il desiderio fu esaudito grazie alla munificenza di Johnny Depp. Quando Thompson decise di «impegnarsi», invece di mandare un fax a Repubblica, prese la via maestra. Si candidò in solitudine alla carica di sceriffo della contea di Pitkin, Colorado. Era sicuro che nessuno avrebbe avuto il coraggio di votare un tizio inaffidabile, un eccentrico avvezzo ad esagerare con alcol e droghe di vario tipo. Perse per una manciata di voti.
Nel nuovo libro, troverete uno dei terreni preferiti da questo autore. Il reportage sportivo pronto a deragliare in avventura, oppure pronto a diventare un sapido intreccio di costume e politica. Odiato a morte dai colleghi «esperti», scommettitore consumato, bevitore incallito, Thompson forza tutte le situazioni in cui, alla fine, si trova immerso fino al collo. La grande pesca alla squalo dovrebbe raccontare (per Playboy del 1974) un torneo internazionale di pesca d’altura. Thompson si annoia subito e inizia un carosello di bevute in compagnia della malavita locale. Segue fuga disastrosa dall’isoletta messicana. Divagazioni? Sì, ma con una strategia. Perché alla fine lo scrittore inseguito da loschi individui prezzolati dalle istituzioni si rivela un perdente che si dimena come un pesce spada in acqua agganciato a un amo. Divertente, spiazzante e a suo modo profondo.
Le pagine dedicate alla boxe forniscono un ritratto (con intervista) di Mohammed Ali colto fra il primo e il secondo incontro con Leon Spinks (siamo nel 1978). Il fascino di Ali è quello di «una specie di Jay Gatsby scuro - non nero, ma con una testa che non sarebbe mai stata bianca». Il pugile voleva tutto, e ha ottenuto quasi tutto: il titolo di campione del mondo, il successo, e perfino un ruolo politico indiretto ma di primo piano (fu lui a rifiutare il servizio militare con queste parole: «Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro», finendo in carcere). Follia e grandezza: «Questa è la differenza fra Muhammad Ali e tutti noi. Venne, vide, e anche se non vinse totalmente, ci è arrivato più vicino di chiunque altro nel corso di questa generazione funesta».
Nei servizi sul football, lo sport cede il passo quasi subito alla politica. Scoppia il Watergate. E Thompson è uno «specialista» di Richard Nixon per averlo seguito come cronista durante le campagne elettorali e per aver condiviso con lui proprio la passione per la palla ovale. Thompson, a partire dal 1973, descrive il declino del presidente, seguito dalle dimissioni e dal perdono ottenuto dal successore Gerald Ford. Per lo scrittore, Nixon è un delinquente comune. Non sarebbe però Hunter S. Thompson se si fermasse alla demonizzazione dell’avversario. E, quando l’autore descrive l’inquilino della Casa Bianca come un teppista di strada, non dobbiamo dimenticare che anche Thompson appartiene a pieno titolo alla categoria (a sentire lui, da giovane avrebbe anche svaligiato una stazione di servizio). In fondo «tutta la carriera politica - e in effetti tutta la sua vita - è un deprimente monumento all’idea che neanche la pura schizofrenia o una psicosi maligna possano impedire a un perdente determinato di salire sulla cima di questa strana società che abbiamo costruito in nome della “democrazia” e della “libera impresa”». Il bicchiere è sia mezzo piano sia mezzo vuoto.
Nixon mostrava «alla vecchia élite politica di Washington lo stesso tipo di disprezzo che i giovani ladruncoli di Georgetown sembrano avere nei confronti dei ricchi e dei potenti». Con la differenza che i ricchi e i potenti della vecchia élite politica non sono migliori del rivale ma solo meno sfacciati e più ipocriti.

L’unica alternativa possibile a Nixon era «la stessa sciagurata accozzaglia di ronzini sfiancati che negli ultimi vent’anni ha appestato l’aria con le sue stronzate». Un’accozzaglia che avrebbe colato a picco gli Usa più velocemente di quanto abbia fatto Nixon stesso.

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