Il Dalai Lama è pronto ad incontrare il presidente cinese, ma il «suo» Tibet, schiacciato sotto il tallone dell'esercito cinese, è ormai un'immensa galera a cielo aperto. Le province circostanti, le vallate tibetane e la capitale Lhasa sono attraversate da colonne di centinaia di camion e blindati lunghe chilometri. «Le strade sono piene di militari i soldati perquisiscono tutti gli edifici porta dopo porta» raccontano le poche e scarne telefonate arrivate da Lhasa. Intanto le agenzie d'informazione cinesi ammettono, per la prima volta, le sparatorie delle forze di sicurezza contro i manifestanti avvenute nella provincia del Sichuan la scorsa domenica. Ma mentre le prime testimonianze parlavano di almeno 18 morti, le notizie diffuse con quattro giorni di ritardo dalle fonti ufficiali cinesi riportano soltanto quattro feriti e definiscono inevitabile l'uso delle armi.
Il Dalai Lama dopo aver cercato di aprire un dialogo auspicando un'incontro con il presidente Hu Jintao manifesta tutto il suo allarme e la sua preoccupazione: «Non conosciamo i numeri, alcuni parlano di sei morti, altri di centinaia - afferma parlando dall'esilio indiano di Dharamsala - di sicuro molte località sono completamente tagliate fuori e circondate dalle truppe, sono molto preoccupato per il numero delle possibili vittime».
Poche ore prima «sua santità» come lo chiamano i fedeli si era detto pronto ad incontrare anche Hu Jintao, il presidente cinese simbolo della repressione per aver imposto la legge marziale durante la rivolta di Lhasa del 1989, quando ricopriva la carica di locale capo del partito: «Sono sempre pronto ad incontrare i dirigenti cinesi e in particolare Hu Jintao» aveva detto il Dalai Lama ricordando di lottare non per l'indipendenza, ma per una semplice autonomia.
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