"Time out", dopo 50anni l’Olimpia cambia sede

Addio alla palazzina liberty di via Caltanissetta dove dal 1959 è stata scritta la storia della pallacanestro milanese Le «scarpette rosse» si trasferiscono al Palalido . In bacheca restano titoli e ricordi: da Bradley e D’Antoni a McAdoo

Dimenticando qualche coppa impolverata, lasciando per terra lacrime e ricordi, l’Olimpia pallacanestro ha lasciato la palazzina liberty di via Caltanissetta che dal 4 ottobre 1964 era la sua sede, che per anni è stata la sua vera casa, come diceva nel testamento la vedova Sada, nel timore che i figli, chiuso nel 1973 l’abbinamento Simmenthal che era stato storia e gloria, togliessero la sede a quel principe dell’immmaginazione che era Adolfo Bogoncelli.
Trasloco silenzioso verso il Palalido, altra piccola grande chiesa. Nuovi uffici, nuovi progetti nello stile Giorgio Armani, nuovi sogni. Ma, proprio come in «Quel che resta del giorno», un magnifico film interpretato da Anthony Hopkins ed Emma Thompson, i vecchi che presidiavano quella casa, si sono radunati interrogando le pietre e i fiori, ascoltando chi aveva ricordi perché in quelle stanze è stata scritta una grande storia sportiva. Da qualche parte ci deve essere ancora la lampada che serviva al senatore Bill Bradley, campione d’Europa con il Simmenthal, campione Nba con i Knicks, candidato alla presidenza degli Stati Uniti, per illuminare la stanzetta dove riposava e studiava prima di allenamenti «incantatori» come diceva Cesare Rubini.
Già Rubini. Era suo il grande ufficio che trovavi subito sulla destra, dopo aver aperto la porta d’ingresso. Se venivi ammesso eri felice. Ci sono passati tanti campioni, ma se ti convocava don Cesare non eri mai tranquillo. La sala dei trofei e delle torture quando era ora di volersi bene per un contratto, per scegliere un destino diverso nella propria carriera, le camere al piano di sopra dove stavano i ragazzi delle giovanili, gli uffici, il regno di Casati e poi di Basilio Andolfo, la sala delle confessioni dove Dan Peterson scoprì la sua nuova America, l’angolo dei pensieri meravigliosi per tante vittorie, ma anche quello della sofferenza come vi potrebbe raccontare Tony Cappellari, uno dei più brillanti fra i nostri dirigenti sportivi.
Ci sono fiori che hanno ascoltato confessioni dolorose di ragazzi che avrebbero voluto essere grandi giocatori e poi si persero nella polvere. Ogni angolo un mistero, ogni stanza una grande storia come vi direbbe il sciur Gamba che un giorno andò in sede e dopo aver dato tutto all’Olimpia, come giocatore e allenatore, decise che la sua vita era altrove, addirittura dai «nemici» storici di Varese. Come racconterebbe Giovanni Boggio, l’unico che abbia resistito con ogni presidenza e che vedeva cambiare tutto dai magazzini dove inventariava il materiale, l’unico che dovrebbe ancora conservare il cuscino sul quale sudava Arturo Kenney imbottito di pasticche per togliere infiammazione alla caviglia.
Dice un umorista tedesco che la memoria è l’unico paradiso dal quale non si può essere scacciati. Pieri, Riminucci e Paolo Vittori, i tre che sono già nella casa della gloria italiana seduti di fianco a Rubini, Gamba e Meneghin, entrati nella storia di quella americana, potrebbero raccontare di quei primi anni in via Caltanissetta dove Ricky Pagani era il capitano.


Togli l’intonaco, ma trovi di tutto, dalla balalaika di Corrado Vescovo, ricordo della prima vittoria di una squadra italiana in Unione Sovietica, alle unghie di Sardagna, dai pensieri di Giulio Iellini ai primati di Nane Vianello, del gruppo Milano composto da Galletti, Ongaro, Binda, Gnocchi, dai sogni di Maso Masonte Masini a quella maglia numero 15 del senatore Bradley fino all’età dell’oro petersoniana con Bob McAdoo che ogni estate torna soltanto per vedere quella palazzina che da domani sarà lontana da tutto, affittata anche se non avrebbe mai voluto essere una casa da dimenticare.

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