Le toghe armate di sentenze che volevano cambiare l’Italia

Risale agli anni ’70 la rivendicazione dell’appoggio al Pci. Quel viaggio in Cina con i dirigenti comunisti. E Bruti Liberati teorizzò il «ribaltamento dei rapporti di forza»

Stefano Zurlo

da Milano

La didascalia sotto quella foto di gruppo l’ha scritta Francesco Misiani con il suo libro La toga rossa. Allora, negli anni Settanta, i magistrati rivendicavano la loro militanza, discutevano di linee e strategie, non si sottraevano alle liturgie del linguaggio politico. Allora, 1976, due toghe rosse, Francesco Misiani e Franco Marrone, ebbero l’ardire di accompagnare in Cina una delegazione del Partito comunista d’Italia e arrivarono addirittura «ad esaltare - come oggi ammette l’autocritico Misiani - il processo popolare», la cui terribile esemplificazione avvenne in uno stadio dove quattro disgraziati furono condannati per acclamazione.
Allora, per fortuna solo allora, la «corte d’assise» che calamitava alcune fra le migliori intelligenze della magistratura italiana era quella cinese. Che però era assai poco garantista e spesso non concedeva nemmeno il lusso della rieducazione in qualche prigione del popolo.
Oggi, oggi che si fa un gran parlare e polemizzare di toghe rosse, vere o presunte, recidive o pentite, naturalmente nessuno ha più il coraggio di sbandierare quelle militanze, quelle simpatie così imbarazzanti, quelle sentenze rivoluzionarie. Anche se questo, va da sé, non significa a priori aver buttato nel cestino della storia i pregiudizi dell’ideologia e di una visione a tinte forti dei codici e delle leggi. Oggi, per fortuna, toghe illustri al centro della scena preferiscono il silenzio, allora parlavano per proclami.
Misiani, in quel suo atlante che è uno straordinario viaggio nella memoria, è esplicito. E tratteggia perfino le sottocorrenti che si combattevano e si affrontavano dentro quel grande raggruppamento che era ed è Magistratura democratica. «Il Pci - scrive Misiani - è il soggetto politico di riferimento “naturale” dell’ala maggioritaria di Md. Salvatore Senese, Elena Paciotti, Edmondo Bruti Liberati - oggi oggetto degli strali del premier - Nuccio Veneziano, Giancarlo Caselli, Vittorio Borraccetti, condividono non solo una sintonia politica con Botteghe Oscure, ma anche l’idea di un percorso gradualista che, sfuggendo a tentazioni avventuriste, abbia quale obiettivo la riforma di un sistema capitalista». Chiaro?
Ma questo è solo un pezzo dell’emiciclo: «Gli si oppone l’ala movimentista che nel Pci vede al contrario il puntello, l’alibi, di un sistema che non ha alcuna intenzione di riformarsi. Insomma, il “vero e proprio nemico” con cui andare allo scontro». Da questa parte della barricata Misiani colloca una pattuglia composta, fra gli altri, da Luigi Saraceni, Franco Marrone, Silvio Perrone, Mario Barone, Francesco Greco. Oggi Greco guida il Pool che sta facendo tabula rasa dei capitalisti disonesti e si batte autorevolmente per dare regole e paletti ad un mercato che, a suo dire, è ancora troppo far west. Allora, invece, «invitava, come molti di noi, all’abbattimento dello stato borghese».
Trent’anni sono l’intercapedine temporale che separa una generazione dall’altra: non si può guardare con l’occhio di oggi alle vicende di ieri. Ovvio. Ma l’apparenza, che pure conta molto dalle parti della giustizia, alimenta nuovi dubbi - non certo a proposito della limpidezza delle persone, ci mancherebbe - sui ragionamenti e i valori e gli orientamenti che quella generazione ha traghettato dal passato. Come non nutrire qualche retropensiero inquietante o malandrino davanti alla migrazione in Parlamento, sui banchi dei Ds, di magistrati prestigiosi come Elena Paciotti prima, e ora (se l’annuncio sarà confermato) di Gerardo D’Ambrosio, motore di Mani pulite e maestro di Greco, della Boccassini, di Colombo e di altri protagonisti delle pagine di cronaca giudiziaria?
Le radici affiorano di nuovo. E viene facile riaprire il poderoso tomo delle citazioni. Allora, 1977, Bruti Liberati, affermava: «La magistratura non deve limitarsi a garantire spazi di libertà, ma deve appoggiare chi gestisce il dissenso per innescare un processo di ribaltamento dei rapporti di forza». Allora, al congresso di Rimini del 1977, sempre Bruti Liberati firmava con Mancuso, Pettenati e altri una dichiarazione di voto contraria alla mozione Senese-Paciotti con la seguente motivazione: «La mozione Senese-Paciotti parte da analisi della realtà sociale e politica italiana semplicistiche, in quanto ignorano il ruolo determinante del soggetto storico della trasformazione (la classe operaia) ed i risultati che le lotte di questo soggetto hanno già conseguito in termini di avanzata democratica e di profondo rinnovamento delle strutture del paese». Allora, 1983, Gherardo Colombo teorizzava: «Quando si parla di opposizione politica svolta dalla magistratura, ci si riferisce esclusivamente all’attività di controllo giurisdizionale che... si trasforma in controllo politico perché altre forme di controllo sono carenti». Allora, i congressi di Md clonavano le divisioni quasi settarie della sinistra e i suoi mal di pancia.
Facile scrollarsi di dosso come coriandoli quella foto ingiallita e catalogarla alla voce «come eravamo».

È sempre Misiani ad ammonire: «Le divisioni e le scelte di allora finiranno per pesare nei decenni successivi sulle scelte e i percorsi professionali di molti di quei giudici». I giudici che dal 1992 ad oggi hanno avuto fra le mani il boccino delle indagini più delicate e dirompenti.

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