Togliamo le opere dalle cantine e facciamone una vera ricchezza

Bruciare un’opera d’arte è reato. Seppellirla in un magazzino di un museo, invisibile a chiunque, invece no. È cosa buona e giusta. Lo dice la legge. Lo fanno ogni giorno soprintendenti e direttori dei musei quando ammassano, nei depositi delle collezioni, un numero inestimabile di reperti e oggetti artistici. Eppure, a ben pensarci, che differenza c’è tra bruciare un’opera e segregarla? Il risultato è lo stesso: quell’opera smette di essere viva. Agli Uffizi 1835 opere sono visibili, 2300 sono invece tumulate al chiuso. Il Guggenheim espone solo l’8% di ciò che possiede, il Prado il 9%, il British Museum il 10%. Una montagna di opere che, per paura che si danneggino o si disperdano, vengono stipate in stanzoni inaccessibili. In nome della conservazione si rinchiudono, si seppelliscono. Strano paradosso: per consegnarle al futuro, gli si preclude il presente. Per dargli vita futura, gli si preclude la vita attuale.
Uno studio dell’Istituto Bruno Leoni, curato da Maurizio Carmignani, Filippo Cavazzoni e Nina Però, mette fortemente in discussione questa ideologia. Si intitola Un patrimonio invisibile e inaccessibile. Idee per dare valore ai depositi dei musei statali (oggi alle 15,30 la presentazione presso l’università Iulm di Milano). La forza - e la novità - di questo studio sta nelle proposte concrete che mirano a sgretolare la graniticità di questo culto seppellitore di opere d’arte. Lo scopo è chiaro: questa montagna di manufatti non deve rimanere confinata nel sottoscala, meglio farla uscire e circolare. Ecco le proposte presentate dai curatori, alcune fattibili già da domani, altre con una gestazione normativa più complessa: i musei dovrebbero avere la completa sovranità sul proprio budget, vendere o acquisire le opere in totale autonomia; dovrebbero incentivare prestiti a lungo termine ad aziende, privati cittadini, ambasciate o altri musei, in cambio di soldi o restauri; dovrebbero potenziare notevolmente la rotazione delle opere tra quelle esposte e quelle in giacenza.
In più, siccome i magazzini delle aree archeologiche sono pieni di materiale di risulta, si potrebbe vendere questo materiale e creare una linea di merchandising basata sul concetto di pezzo unico.

Ovvero, far venir meno l’inalienabilità del bene culturale in mano allo Stato. La gestione del patrimonio è anche gestione di un patrimonio economico. È il solo futuro per non far marcire le opere nei depositi, accatastate come legna, mai esposte, e per di più costose.

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