Torino verso le Olimpiadi senza il Patriarca

L’anno dell’Olimpiade invernale. Prima ancora del campionato del mondo di football. Ci sarà tempo per scrivere e parlare di Berlino e Monaco, di Stoccarda e Amburgo, di Gilardino e di Totti, degli arbitri e della Germania über alles. Ma ora c’è Torino con i suoi Giochi e forse questo è il guaio, il problema da affrontare e risolvere in modo spiccio. Perché finora si è detto molto dei costi, lievitati secondo costume internazionale, dei lavori in corso (eterno), di una città devastata e ora «proibita», aggettivo confezionato non per situazioni hard ma per le regole del traffico, delle beghe sindacali che mettono in conflitto i commercianti con il comitato organizzatore così da suggerire a commessi e commesse di non sforare l’orario di lavoro, dei tedofori di ogni tipo, dei politici e dei politicanti pure questi come sopra, insomma il cosiddetto gioco dei Giochi, trascurando un particolare che tuttavia risulterà decisivo: questa sarà, dovrà essere la grande occasione per l’Italia tutta, non soltanto per il Piemonte e per il suo capolouogo, l’occasione si salire sul podio non soltanto per le medaglie conquistate dai nostri atleti (auguri).
A quarantasei anni dall’Olimpiade estiva di Roma, a ventisei da Italia ’90 di football, il nostro Paese ha l’onore e la responsabilità di farsi riconoscere dal resto del mondo. Capire, dunque, che i Giochi non appartengono a una città e alla sua provincia e nemmeno a una regione, non sono il carnevale di Gianduja, nemmeno la passerella di sindaci e assessori o la fiera per mostrare palestre, impianti, edifici luccicanti, oggi, e domani affumicati dall’abbandono.
Torino spesso lo ha dimenticato (le celebrazioni del centenario dell’unità e tutto il repertorio che ha lasciato), mettendo poi il muso con chi la trascurava. Lo hanno dimenticato anche i meteci, quelli venuti da fuori, da Roma intendo, per spiegare come andavano gestite le cose e segnando il territorio, come invasori e bonificatori. Storie italiane, queste, con le quali si sarebbe divertito il Patriarca. Che è l’ombra lunga, malinconica dell’Assente. Gianni Agnelli fu l’ideatore dei Giochi, suo fratello Umberto ne appoggiò l’idea e l’iniziativa, il Sestriere era stato trasformato, negli anni belli, da territorio quasi inesistente anche sulle mappe geografiche, nel sito illustre, prima presepe, poi residenza lussuosa, quindi autosilo.
Gli Agnelli hanno lasciato prole ed eredi ancora in formazione, silenziosi e ai margini di questa vicenda importante; Torino insegue la nostalgia, i «SenzaGianni&Umberto» sono una comitiva folta, con alcune figure arroganti, molte presenzialiste e rare presenze effettive. Sarebbero stati sicuramente i Giochi dell’Avvocato che lungo la strada che porta da Torino a Pragelato, dal Sestrière a Bardonecchia, da Pinerolo a Cesana qualche traccia profonda ha lasciato. Sarebbe stata l’Olimpiade di Umberto Agnelli che con la discrezione che lo distingueva dal fratello, aveva raccolto il testimone. Devono essere Giochi d’inverno e non l’inverno dei Giochi.


Ci siamo, si sono messi a giocare con la fiaccola, il fuoco che fa il giro d’Italia nella speranza di scaldare il Paese ma che ha finito per ridare luce ai soliti noti del Paese medesimo, dai cantanti ai calciatori, dagli uomini della politica a quelli dello spettacolo mentre il resto si è occupato dei famosi sull’isola, di Bonolis e Mentana, della prova tivù, del braccio di Di Canio, del pugno di Lucarelli, nulla sapendo di curling e di biathlon ma tutto di last minute e over booking.
Al di là dell’inno abbiamo quaranta giorni per ricordarci di essere fratelli d’Italia.

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