È chiaro che sia ombroso al limite della maleducazione, che non parli e non guardi in faccia nessuno. Bob Dylan mette tutto nella sua arte. Nel concerto di oggi al Forum di Milano e nel nuovo cd (il suo 46esimo) «Together Through Life», in uscita il 24 aprile, che segue «Modern Times», schizzato in vetta alle hit parade tre anni fa. Dylan torna alle radici («questi brani hanno il suono dei vecchi 45 giri», ha detto) riporta in primo piano il blues ma gli dà un respiro fluido e moderno con arrangiamenti ricchi e spigolosi. «Beyond Here lies Nothing» apre imperiosamente, echeggiando «All Your Love» di Otis Rush (brano che lanciò Eric Clapton con John Mayall), poi l’artista si diverte a cambiare continuamente paesaggi sonori, portandoci con lui «insieme attraverso la vita». Una vita che racconta con caustica ironia i soprusi del potere («It’s All Good»), che mantiene alta la tensione nel dolente melodismo country di «Life Is Hard» (scritta per il film «My Own Love Song» di Oliver Dahan con Nick Nolte e Renée Zelwegger), che esplode nella dura ballata «Forgetful Heart» per poi ripiegarsi sui suoni Tex-mex di «This Dream of You» (ospite speciale David Hidalgo dei Los Lobos all’accordeon). Una vita dura ma mai piatta; che riparte dal blues e dal folk - ma con decisi accenti rock - per ricordare disillusioni passate su cui costruire stimoli e spunti per nuovi sogni.
Il Dylaniano
di Antonio Lodetti
Nessuno gridi allo scandalo se definiamo Bob Dylan il Messia del rock. Lo è per mille motivi: per il provocante piglio profetico, per l’indole biblica delle sue parabole in cui se la giocano - senza mai sopraffarsi - dannazione e salvezza, perché è uno che «bussa alla porta del paradiso». E poi, come il Messia, è amato da frotte di discepoli quanto visceralmente odiato dai suoi detrattori, diviso tra «dylaniani» e «dylaniati».
I primi lo osannano, i secondi lo criticano o - alla meglio - lo ignorano. Ma a 68 anni un suo concerto è ancora il miglior concentrato di rock e poesia sulla piazza. Lui è lì, un po’ gnomo, un po’ cowboy, un po’ aedo moderno, mito da sempre impegnato a smarcarsi perché il mito stesso non lo imprigioni. Ha una voce che fa paura e sfida tutte le leggi armoniche. Già nel ’62-’63 buttava lì delle stecche da rabbrividire, figuratevi oggi con quella vocalità roca, spezzata, a metà tra un vecchio bluesman ubriaco (ma qualcuno non diceva che la verità è argomento da ubriachi?) e un Popeye disidratato. A volte i suoi fraseggi paiono rutti che irridono il fraseggio e la corretta intonazione, ma proprio lì sta il suo valore aggiunto; quello dello stregone che piega tutto e tutti alla sua disincantata poesia. Sembra (o forse è) freddo e distaccato, ma comunica al cuore ed alla mente. In quella vocalità bastarda e prosciugata c’è il suo Dna; c’è l’anarchia sonora dei bluesmen che ha amato (Charley Patton, John Lee Hooker), c’è l’assoluta indefinibilità delle «blue notes», l’antica vocazione on the road di mastro Woody Guthrie. Non è roba per orecchie educate (in tutti i sensi), ma è l’estetica del folk. Domandiamoci perché lui è ancora al top e la splendida voce di Joan Baez, che lo ha allevato, è finita nelle cantine. Ascoltate i toni di Beyond Here Lies Nothing che apre il nuovo cd Together Through Life, o l’urlo di cartavetro della seguente My Wife’s Home Town per capire cosa significhi invecchiare ma essere «forever young» per virtù di poesia. Oppure ascoltatelo dal vivo ringhiare facendo a brandelli antico blues degli anni Venti come Rollin’ and Tumblin’. Poi d’accordo, a volte esagera o proprio non ce la fa, come la primavera scorsa, a Trento, quando ha sussurrato a stento una Blowin In the Wind a tempo di valzer che però ti entra nel cuore lo stesso. Perché non hai cultura musicale, dirà qualcuno; perché il suo messaggio va ben oltre la canzone e addirittura oltre la musica, replica il dylaniano, dove i parametri del critico musicale non bastano più a declinare il mistero indeclinabile della sua opera.
Il Dylaniato
di Paolo Giordano
«Oddio, sto cantando proprio come Bob Dylan! Devo avere un pesce in bocca». Già Elvis Presley, scherzando ma non troppo, aveva riassunto bene la situazione: peccato che quarant’anni dopo il singolo pesce in bocca sia ormai un acquario. Oggi Bob Dylan quando canta sembra un marinaio al decimo whisky di quelli che ti stracciano le budella, mica roba buona. E quando scrive i suoi brani, è un superbo manierista che, ci mancherebbe, al quarantaseiesimo album pubblicato in quarantasette di carriera ha una straordinaria esperienza e molta disinvoltura nello scorrazzare tra le radici musicali americane. Prendete per esempio il primo brano del nuovo disco, Beyond here lies nothing: parte bene, benissimo, è addirittura trascinante, ma appena lui apre bocca è meglio spegnere. Non canta, rantola. Non interpreta: tossisce parole. Ma fin qui, pazienza: ha le attenuanti generiche dell’età e quelle specifiche di una storia che ha fatto la storia. Però ecco cosa succede: a lui è concesso. È concessa la mediocrità e guai a chi osa stroncare. Un altro al suo posto finirebbe come San Sebastiano, dissanguato dalle frecce della critica. Ci sono critici, e fan, che calibrano con il bilancino la voce dei singoli cantanti per denunciare con il ditino alzato anche la più innocua nota calante. Che setacciano l’intero repertorio pop e rock per individuare anche la minima traccia di plagio e strillarla compiaciuti ai quattro venti. Bob Dylan no: lui dal vivo è inascoltabile, un pasticcione che grida vendetta, eppure nessuno, o pochissimi, fiatano. E la sua ultima produzione, pure in album belli come Modern times o più che dignitosi come l’ultimo Together through life, non è certo un inno all’originalità. Eppure, per carità, tutti zitti. Però d’altronde come non capirlo, Bob Dylan, uno che, detto per inciso, «le critiche non mi importano, io sono le mie parole». Al suo posto chiunque farebbe così: ha l’immunità diplomatica. Ha annientato brani come Blowin in the wind o The times they are a changin - ossia le bibbie del movimentismo pacifista e no global che hanno la responsabilità di aver educato tre generazioni - concedendoli a spot tv di società d’affari o di banche in cambio di milionate di dollari. E via così. Qualcuno si è permesso di obiettare che coerenza l’è morta, ma tutti gli altri muti.
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