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È tornato Ibra Ma sembra ancora quello dell’Inter

di Claudio De Carli
È andato a Barcellona per vincere la Champions league e questa sera passa da Milano.
Non è uno e basta, è Zlatan Ibrahimovic e se la gioca con pochi altri per il titolo di calciatore più forte della terra. Non è un poeta, non fa beneficenze, massaggia la palla come nessun altro, la svernicia sotto la suola, non assomiglia al passato, sta reinventando il mestiere. Quando ha detto che senza di lui l’Inter era una del gregge ha esagerato, ma ci è andato molto vicino, ieri Xavier Zanetti gli ha ricordato che è sempre la squadra a vincere e mai il singolo, però Ibra qui ha dato spesso l’idea contraria. E questa sua determinazione adesso lo rende ancora più pericoloso, ha smania di diventare uno che scrive la storia del Barcellona, ha minacciato di lasciare addirittura la sua nazionale se dovesse accorgersi che non regge gli impegni. Intenti che valgono più di una camicia baciata per contratto: «Vengo a giocare a San Siro con un’altra maglia e cercherò di fare gol, perché adesso gioco nel Barcellona».
Dicono che appena sbarcato a Barcellona si sia trasformato e gli spagnoli si sono domandati se per caso avessero spedito lì una controfigura: è bravo, gentile, affabile, disponibile in qualsiasi momento, ride, fa spogliatoio, ha portato entusiasmo. Ma dai!
Comunque si vede che gli è bastato respirare l’aria di Milano per tornare quel malmostoso che non fa mai stare tranquilli. Una troupe l’ha intercettato appena sbarcato a Malpensa e lui ha risposto a monosillabi senza mai dire niente: «Grande partita, non importa come mi riceveranno». Uguale a due mesi fa. Nessun sosia, purtroppo a Barcellona è arrivato l’originale, quello che ha segnato l’ultimo gol dell’Inter in Champions, Brema, 9 dicembre 2008, 43’ del secondo tempo.
Adesso dicono che lui deve dimostrare una volta per tutte quanto sia forte anche in Europa in una squadra che non gli consente alibi. Dell’Inter invece dicono che sia più attrezzata per la Champions. Sono discorsi così, due risultati avversi e cambia tutto. Non la valutazione su un giocatore che qui a Milano la gente adorava anche se non era il più simpatico, perché quando Ibra esce dal campo hai sempre la sensazione che sia stato devastante, lui da solo ti faceva scatenare l’inferno dentro e fuori. Per questa partita si è preparato scrupolosamente, ci tiene, ignorerà la curva ma lo faceva anche prima. Mistero per come verrà accolto, qui ha vinto tre scudetti, momenti belli, San Siro non può rinnegare un passato così. Sarà più importante capire la faccia dell’Inter, il gioco, la testa, la coesione. Non sarà più importante del risultato, ma quasi. Affrontare i campioni d’Europa, il futuro Pallone d’Oro, il più forte giocatore del mondo e uscirne bene, è un ottimo risultato a prescindere dal punteggio. Messi-Ibra sono meglio di Eto’o-Milito, si possono promuovere sondaggi in qualsiasi paese del mondo per chi non è d’accordo.
La squadra sta cercando la sua identità in Europa, José Mourinho ieri ha parlato in proiezione: «Il Barcellona è una scuola di calcio, l’Inter vuole diventarlo». C’è dentro un progetto in questa dichiarazione, c’è ambizione, voglia di vittorie, di aprire un ciclo che non si fermi ai confini. È solo una di sei partite del girone, è solo Ibra che torna con un’altra maglia, terrà i gomiti alti, farà salire la squadra, vorrà far capire che fra lui e il secondo in classifica ci sono 50milioni di differenza e la quota non l’ha decisa lui. Josè sta lavorando sodo sulla sua squadra: «Ora abbiamo più potenziale, più soluzioni, più futuro». Ha chiesto di non commentare le dichiarazioni di Ibrahimovic, il dolore è evidente e non è mascherato, era certo che il suo uomo rimanesse, è stata una fucilata che non si aspettava. «Cosa c’è che non va? Non c’è più Ibra», rispose questa estate mentre stressava una poltroncina del Carlton Ritz di Boston. Quando si è ripreso ha detto: «È partito un giocatore incredibile, ma con quei soldi ne sono arrivati cinque al suo posto».

Appunto.

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