Tortellini, nebbia e zie: va in scena la provincia

Michele Brambilla racconta un'Italia da cui alcuni fuggono ma da cui altri traggono un lessico vitale

Tortellini, nebbia e zie: va in scena la provincia
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Un mezzosangue non ama la provincia. Come chi scrive: mezzo bresciano della Bassa e mezzo fiorentino di Porta a Prato. A diciannove anni scappai via, verso l'anonimato della città. Basta passeggiare per il centro sotto gli occhi di chi sa tutto di te: dove hai comprato il soprabito, le ragazze che ti hanno detto picche, se tuo papà è ancora amico dell'ing. Tal dei Tali, chi viene a cena a casa tua. Basta con l'aperitivo.

Mai pentito della mia scelta. Ma il tempo procede, il corpo invecchia ma non (grazie a Dio) la voglia di provare a capire quello che non avevi capito. Mi arriva a casa un bel libretto di Michele Brambilla, di nascita monzese e provinciale di mille province per pura vocazione. In provincia è il titolo, immobile anche lui come il mondo che racconta (Aragno, pagg. 100, euro 15).

Prima di leggerlo qualcosa mi suggerisce di andare a riprendere un altro libretto, edito da Slow Food (pagg. 90, euro 10) cinque anni fa, Dalla Bassa, che raccoglie un gruppo di brevi magnifiche prose del non dimenticato Gianni Brera, che fu poeta dell'Immobilità come nessun altro: anche, naturalmente, quando parlava di sport. Lì una Provincia popolata di omini strambi e vecchie zie rivela la sua originalità, la sua diversità rispetto a un presente che sarà smart ma è anche tanto omologato - e non nella diversità delle opinioni, ma sugli argomenti da cui le opinioni prendono l'avvio.

Che noia, tutta questa iperconnessione; che palle, tutto questo eterno botta-e-risposta! Ma cosa mi sono perso, cosa si è perso questo mezzosangue, scappando via dalla provincia, dagli omini che camminano nella nebbia colla bicicletta a mano, dalle zie che cuciono abitini per il nascituro, confezionano torte all'alchermes e tengono ancora i salami appesi in cantina?

Il libro di Brambilla ricama una lenta, pensosa risposta a questa domanda. Lo fa secondo lo stile svagato del giornalista nazionale (Corriere, Giornale) che la provincia ritrovata ha trasformato in cronista-scrittore alle prese con una comunità che vive tanto della storia del mondo quanto delle piccole storie che nascono nel suo cuore e nella sua pancia. È scoppiata un'altra guerra, che brutto, e per di più la moglie del farmacista è caduta dalla bicicletta e si è rotta il perone.

Il libro si compone di tre parti. La prima, che dà il titolo al libro, è un piccolo capolavoro autobiografico, costellato di episodi esilaranti, sulla figura del giornalista di provincia e la sua tutt'altro che risibile etica. La seconda parte è dedicata alla provincia immortalata nella letteratura (la Luino di Piero Chiara, la Parma di Alberto Bevilacqua) e nel cinema (la Treviso di Signore e signori, la Bassa bergamasca de L'albero degli zoccoli). La sezione conclusiva si concentra invece su Bologna in forma di diverse passeggiate sull'orma di alcune vecchie canzoni o nomi tratti dal comune deposito della memoria.

Tra queste pagine il mezzosangue che sono si ferma, riflette, va avanti, torna indietro, si ferma di nuovo. Su una parola, su un verbo, su un nome proprio. Forse la mia fuga dalla provincia, da quel mondo dove tutti sanno tutto di tutti, rivelava una non-comprensione, o una difficoltà imprevista a capirne la natura. In provincia bisogna saperci vivere, cogliere il senso vero degli aperitivi e dei pettegolezzi, dare il loro posto al prete, al farmacista e agli impiccioni - perché questa è una commedia, dove c'è una parte per chiunque.

Bisogna capire l'immobilità di quel mondo, la sua profondità metafisica, la sua nebbia, i suoi tortellini, la relatività e la circolarità del Tempo.

Che poi è tutta una lingua, un lessico, una sintassi, perché la lingua nasce dalle piante, dalle galline, dal vento, dalle stagioni, dalla luce e dal buio, dal sereno e dalla foschia, insomma dalla terra e dal cielo, e un'altra così ricca finora (almeno da noi) non è stata inventata.

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