La tragedia del popolo afghano nel documentario del regista suicida

Anche Gino Strada, come sempre militante, alla presentazione de «La stella del soldato» di de Ponfilly nella sezione delle Giornate degli autori

da Venezia

Gino Strada dixit: «Chissà perché, ma da Napoleone a Pietro il Grande, dai sovietici all'attuale circo internazionale, tutti hanno sempre avuto la pretesa di decidere il destino degli afghani». Applausi scroscianti. Com'era facile attendersi, la presenza del chirurgo di Emergency, in jeans e polo blu, ha impresso ieri un carattere quasi militante alla proiezione di La stella del soldato, tra i più attesi delle Giornate degli autori curate da Fabio Ferzetti. Storia vera, resa ancora più drammatica dal suicidio del regista, il 55enne Christophe de Ponfilly: un colpo di pistola alla tempia ha posto fine, nel maggio scorso, a un'esistenza non più sopportabile. Documentarista francese (tra i fondatori dell'agenzia Interscoop) e grande esperto di cose afghane (per averci vissuto a lungo), de Ponfilly la pensava più o meno come Strada sulle origini di quel conflitto devastante, tanto da far dire alla voce fuoricampo: «Soffiando sul fuoco, la Cia ha sparso braci nel mondo». Ma il film, pur parziale nel partito preso, è interessante, a tratti toccante, e rappresenta di sicuro una novità la formula produttiva, che unisce Francia, Germania e Afghanistan.
Storia vera, si diceva. Si parte dallo shock dell'11 settembre, visto come una conseguenza della politica statunitense in quell'area, per compiere un salto indietro di quasi vent'anni. «La Cia voleva fare dell'Afghanistan il Vietnam dei sovietici», sostiene infatti sullo schermo l'alter ego del regista, il documentarista Vergos accolto come un alleato dalle milizie del leggendario capo Massud. È lui a rievocare la vicenda del fantaccino russo Nicolai, giovane cantante rock renitente alla leva che nel 1983 si ritrova a combattere in prima linea nella valle del Panshir. Nella prospettiva del film, i resistenti afghani sono naturalmente guerrieri coraggiosi e leali, non ancora lambiti dal virus talebano: insomma, dei partigiani. Mentre l'armata sovietica, composta da soldati di leva spauriti e feroci, attua rastrellamenti in stile nazista, massacrando vecchi e bambini. In questo contesto, lo smarrito Nicolai viene catturato, ma invece di farlo fuori i mujaheddin lo «adottano», conquistandone la fiducia e ribattezzandolo Ahmed.

L'ultima sequenza del film, girata proprio da de Ponfilly, mostra il vero Nicolai in procinto d'essere liberato dal vero Massud. Emozionante. Anche se, per la cronaca, il russo poco dopo venne ucciso sulle montagne del Pakistan.

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