Il tranviere diventato manager che ha scritto la storia della boxe

Se n’è andato anche Rocco. Per quelli della boxe bastava la parola. Dicevi Rocco e pensavi a Bruno Arcari eppoi a Patrizio Oliva, a quella faccia che pareva legno intagliato, a quella voce che arrivava all’orecchio anche se guardavi un match davanti alla tv e non a bordo ring. Rocco Agostino era il manager con il bastone in mano, era il suo spot di successo nelle foto ormai d’epoca. Rocco era l’antitesi di Umberto Branchini. Si sono combattuti da un angolo all’altro del ring: l’uno con la sua dolcezza modenese-emiliana, l’altro con quel digrignare grinta, con quel parlar a cantilena, la riga che spartiva i capelli e raccontava di una filosofia di vita pugilistica: o con me o contro di me.
Rocco Agostino se n’è andato a 75 anni, tarato dal diabete, proprio mentre spuntava la notte di Natale. Bruno Arcari lo aveva lasciato nel pomeriggio, gli aveva fatto la barba. In tempo per dirgli: «Sei sempre una roccia». È stato il suo addio. Lui che per anni è stato il suo gladiatore sul ring. Rocco era forse l’ultimo rappresentante di una generazione di amanti del ring, della boxe, di quel mondo che per decenni è stato una nicchia e un libro di piccole grandi storie. Era un tranviere ed è diventato grande manager di boxe per una di quelle coincidenze della vita. Conobbe la boxe quando decise di convincere suo fratello a smetterla. Un piacere che gli chiese sua madre. Rocco andò in palestra e, anziché portar fuori l’altro, non ne uscì lui. Si innamorò «sportivamente» di Duilio Loi. Lo vedeva furbo come nessuno, geniale nel combattere, pronto a sfuggire ogni pericolo. Eppure il pugile a cui legò la sua carriera da manager fu Bruno Arcari, un combattente indomito. Gli piaceva Muhammad Alì, ma si dedicò soprattutto a piccoli pesi. Certo, qualche massimo, qualche mediomassimo, trascinò al meglio della carriera Massimiliano Duran, fece conquistare vette impossibili a Mauro Galvano, il meglio l’ottenne dal suo Clay, che poi era Patrizio Oliva: bravo nella chiacchiera e nello schivar colpi. Aveva pugni come piumini, ma Rocco lo guidò con saggezza. Finché Oliva non decise di pensare anche ad altro e il manager non gradì.
Agostino era nato a Genova da genitori campani, smise di guidare filobus nel 1969, quando un ritorno da Vienna, per un combattimento, fu troppo lungo e pieno di imprevisti per ripresentarsi puntuale al turno di lavoro. Seguì all’angolo almeno 4.000 incontri, i suoi pugili conquistarono quattro titoli mondiali (Arcari, Oliva, Galvano, Duran), 23 cinture europee e 42 titoli italiani. Ne ha viste di ogni sorta: una volta, a Copenaghen, gli pagarono un mondiale con 60mila banconote da un dollaro. Seguì la carriera di Nino La Rocca e cercò di salvaguardarlo dai tranelli della vita.

«Per evitare che spendesse subito tutti i soldi guadagnati», raccontò. È rimasta una missione incompiuta.
Ieri ci sono stati i funerali a Genova Quinto. I suoi pugili hanno sorretto la bara. Rocco ha lasciato il segno e ha posato il bastone.

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