Fabio Roversi Monaco è stato amministratore delegato dell’Istituto Treccani dal 2001 al 2003 (e poi consigliere fino al 2005). Lasciò in totale disaccordo con l’allora presidente Francesco Paolo Casavola. Attualmente è presidente della Fondazione Carisbo (Cassa di Risparmio di Bologna), azionista della Treccani, gloriosa istituzione in questi giorni sotto tiro per la proposta del suo nuovo presidente Giuliano Amato: chiedere aiuto a collaboratori esterni, tramite il web, per riuscire a terminare la pubblicazione del Dizionario Biografico degli italiani, iniziato nel 1960 e arrivato alla lettera «M». Vicenda che Fabio Roversi Monaco conosce molto bene per esperienza diretta.
Professore, la Treccani è ancora una volta nella bufera. Fiore all’occhiello dell’editoria italiana e, insieme, termometro dello stato febbricitante della nostra cultura. È così? Che cosa rappresenta l’Istituto Treccani?
«L’Istituto Treccani rappresenta un formidabile giacimento culturale che tende sempre a crescere e una gloria nazionale: un’impresa italiana di altissimo livello nel campo intellettuale che si è trovata a operare in una situazione organizzativamente non adeguata ed economicamente sempre più asfittica: la carenza di mezzi finanziari e scelte poco incisive ne hanno rallentato la spinta innovativa».
A un certo punto, nel 1985, la Treccani è diventata una Spa: le quote sono soprattutto di banche e Fondazioni - tra le quali Carisbo - più Telecom. Lo Stato invece non interviene con aiuti economici, ma ne sceglie il presidente...
«La Treccani fu trasformata in Spa per cercare di garantire una base patrimoniale per operare - senza alcun fine di lucro in senso stretto - come impresa votata a realizzare opere enciclopediche di alto valore culturale. Questo sistema di auto-sostentamento, però, nel tempo non ha retto, a causa di una gestione non certo virtuosa dal punto di vista economico: l’organizzazione della Treccani era troppo costosa, anche per eccesso di personale dipendente; per i tempi di realizzazione delle opere troppo lunghi; e per le redazioni troppo numerose. Negli anni ’80-90 c’è stato uno spreco eccessivo nelle spese. Ad esempio, l’Enciclopedia dell’arte medievale curata da Angiola Maria Romanici ha avuto lunghissima gestazione e costi enormi. È evidente che il livello redazionale delle opere Treccani debba essere diverso da quello delle altre case editrici che hanno come mission principale quella di produrre utili, però...».
Ma è possibile conciliare esigenze economico-editoriali con il rigore scientifico?
«Secondo me sì, anche se è molto difficile: organizzando meglio il lavoro e riducendo il personale, che peraltro ha trattamenti economici superiori rispetto ad altre imprese del settore. Vi sono state redazioni rimaste in vita decenni a causa dei tempi troppo lunghi di realizzazione delle opere: una patologia che non è stata al servizio della cultura».
È il caso del Dizionario Biografico, al centro delle polemiche.
«Un’opera di grande valore, dai costi elevatissimi. Quando diventai amministratore delegato, nel 2001, tentai di creare due redazioni, per dimezzare i tempi. Non redazioni improvvisate, ma un impegno importante della Scuola Normale di Pisa e del rettore Salvatore Settis. Non ho avuto successo, principalmente per l’opposizione del direttore dell’opera. L’obiettivo era di finire il Dizionario entro il 2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Oggi sono ancora più convinto che per dare un’accelerata dovevano essere realizzate due strutture, se non tre, pur sotto un unico coordinamento. Mi ero mosso per ottenere un sostegno da parte dello Stato, in modo da garantire i fondi necessari a terminare nel più breve tempo possibile. Un prodotto del genere, infatti, può essere venduto solo se si ha un’idea precisa di come sarà l’opera nel suo complesso, e soprattutto di quando finirà. Una famiglia non può acquistare il Dizionario con la prospettiva di andare avanti venti o trent’anni, come è capitato a quelli che hanno iniziato nel ’60. La mia proposta operativa era che lo Stato, in occasione del 150º dell’Unità, acquisisse una copia del Dizionario per tutti i comuni d’Italia. In questo modo celebrando l’anniversario e contemporaneamente sostenendo la Treccani».
Come giudica l’idea di usare collaboratori esterni, tramite il web, per finire in fretta il Dizionario?
«Una soluzione tardiva. Non si può pensare di risolvere il problema in un anno. Quando proposi la mia idea, la Treccani aveva davanti dieci anni per realizzare l’impresa. Oggi non è più così. Vedo peraltro che i ragionamenti dei principali responsabili di questa situazione sono ancora nel senso di assicurarsi la guida dell’opera. Un atteggiamento che equivale ad autoaugurarsi una lunga vita, almeno 120 anni».
Le perdite del Dizionario sono circa 600mila euro l’anno, il costo di un modesto appartamento. L’Italia non può permettersi una perdita irrisoria a fronte della costruzione di un monumento della propria identità culturale?
«L’Italia non tiene conto in modo adeguato dei propri monumenti, tanto meno di quelli collegati a una grande identità culturale».
La Treccani ha puntato da tempo sul web per trasformarsi da prodotto di accumulazione del sapere in strumento di divulgazione destinato al grande pubblico.
«L’Enciclopedia Treccani, mi sembra di capire, dovrebbe trasformarsi in soggetto che gestisce soltanto un grande patrimonio culturale. Mi sembra un’idea pazzesca, la Treccani ha senso se seguita a operare. Questa credo sia l’impostazione del presidente Amato. Posizione in cui mi riconosco pienamente».
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