Tremonti ai Comuni: «Non aumenteremo la pressione fiscale»

Tendete l’orecchio. Lo sentite? L’inconfondibile rumore degli artigli fiscali si sta facendo sempre più vicino e sinistro. Il partito delle tasse sta rialzando la testa e sembra trovare consensi trasversali fra politici e banchieri, stanchi del periodo di vacche magre e sedotti dalla prospettiva di poter mettere le mani su un bel tesoro da spartire. Il tutto ovviamente per il «bene del Paese», come se non fosse dai tempi del dono dell’oro alla Patria del 1935 che sentiamo questa favola. L’ultima alzata di ingegno porta la firma di un accademico illustre non sospettabile di idee comuniste: si tratta di Pellegrino Capaldo, vecchio banchiere di scuola democristiana.
Secondo il professore si potrebbe «dare slancio agli investimenti» per «spronare la crescita» abbattendo il debito pubblico per mezzo di un’imposta straordinaria sugli immobili, calcolata sulla differenza del valore di acquisto e il valore attuale. Prima di lui si era sentita la voce di Giuliano Amato, famoso per il prelievo notturno sui conti correnti del 1992 che ha proposto una patrimoniale di 30 mila euro a carico del «terzo più ricco degli Italiani». Nei palazzi della politica, in modo inquietante, si nota una certa condiscendenza, un sommesso «si, ma...» appena tenuto a freno dall’intransigenza di Berlusconi che sulla promessa di non mettere le mani nelle tasche degli italiani ha sempre scommesso tutto. E il progetto trova terreno fertile perfino in alcune grandi banche d’affari anglosassoni, che già fanno i primi calcoli.
Gli argomenti sono subdoli: si dice che il peso del debito pubblico è insostenibile e si rischia di finire prima o poi come la Grecia, che se i conti dello Stato avessero maggiore flessibilità si potrebbero mettere in atto politiche di sviluppo, che in fondo il debito è ancora dei cittadini e quindi «tanto vale accollarcelo» (parole di Capaldo) e così via. Musica per certi politicanti che ricordano i bei tempi delle casse piene e del potere di elargire mance alle file di questuanti che venivano a Roma a baciare la pantofola al potente di turno. Musica per i banchieri che si vedrebbero tutelati nelle loro speculazioni grazie alla sicurezza finanziaria del paese. Ecco, sarebbe ora che, una volta per tutte, i liberali in Parlamento e nella società facessero sentire forte la propria voce zittendo questo canto delle sirene. Eh no, caro Prof. Capaldo: non è vero che «il debito in fondo è dei cittadini e tanto vale accollarcelo». La verità è che da una parte ci sono degli Italiani virtuosi che, nonostante un fisco da record, sono riusciti, ammazzandosi di lavoro, a risparmiare e ad acquistare una casa che rappresenta la base e la radice di ogni progetto di vita. Altri stanno tentando, con il sudore della fronte, di mettere da parte dei risparmi per costruirsi una vecchiaia dignitosa non fidandosi di una previdenza che ha riservato i suoi favori ad altre generazioni e a categorie di privilegiati. Dall’altra parte invece c'è chi quel debito l’ha creato ed è nient’altro che quello stesso Stato che ha sperperato denaro in mille rivoli improduttivi, in clientele, in consulenze e appalti d’oro per gli amici e gli amici degli amici e che vorrebbe riempirsi di nuovo le tasche per ricominciare a fare i comodi propri.
Ogni proposta che punti a togliere alle formiche per dare alle cicale deve essere avversata con decisione.

Si perseguano gli evasori, al limite si tassi chi non è in grado di dimostrare la provenienza delle proprie ricchezze o chi percepisce vitalizi non supportati da contributi ma si lasci in pace chi finora ha già pagato per tutti. Lo Stato dovrebbe piuttosto pensare a come restituire i soldi a chi ha sempre tirato la carretta, non certo macchinare per sottrargliene altri allo scopo di finanziare le proprie (poco virtuose) spese.

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