Caro direttore,
condivido l'indignazione che immagino provino buona parte degli italiani di fronte a magistrati che scarcerano dopo pochi mesi criminali e stupratori, magari per riporli ai più tranquilli e gestibili arresti domiciliari. Un amico giudice mi fa però notare che tutta questa indignazione è quanto meno fuori luogo. Il magistrato applica la legge, che ha maglie abbastanza larghe cui gli avvocati difensori si possono agevolmente aggrappare e il cui ridimensionamento compete al politico, non certo al togato. Ma ciò che più colpisce è che nell'applicazione di questa o quella norma, nel decidere fra interpretazione e interpretazione, nel discriminare caso per caso, il magistrato ormai tenda a scegliere la soluzione più comoda a lui, perché i problemi che possano derivare da tale applicazione siano i minimi e i più facilmente gestibili; dalle carceri traboccanti agli infiniti lacci e laccetti che un diritto tagliato sempre più grossolanamente offre ad avvocati prezzolati - per tacer della grancassa mediatica che fa del giudice l'eroe immacolato contro il potere o in nevrastenico egotico che al controllo del potere vuole sottrarsi -, il magistrato sembra volersi sfilare da ogni responsabilità: «Not in my name», insomma, e non propriamente nel senso più nobile dell'espressione.
Ahi, quanto somiglia al vostro costume il nostro! Verrebbe da parafrasare Leopardi e accomunare, sotto la comune bandiera del disimpegno e della ben poco nobile cura dell'orticello domestico, insegnanti e magistrati. A me, insegnante delle medie reduce dagli scrutini del primo quadrimestre, non può che fare un po' pena questo nostro comune sentimento di paura per tutto ciò che può frapporsi fra noi e il nostro vilipeso senso di giustizia, cui oramai abbiamo di fatto rinunciato definitivamente: la vacuità di taluni studenti, l'arroganza e la protervia di certi genitori, il timore di taluni dirigenti per sempre possibili ricorsi, che vedono comunque e sempre la scuola sconfitta, essendosi ormai da tempo imposta la figura dello studente ammesso alla classe successiva per via giudiziaria. Di fronte a tale scenario, molti insegnanti - come molti magistrati di fronte alla criminalità - si sono arresi, e anche l'unico elemento sensato della riforma Gelmini, quel voto di condotta che avrebbe potuto discriminare tra chi opera bene e chi no, tra chi è civile e chi no, tra chi sa stare in società e chi deve ancora imparare a farlo, naufraga in una melassa indistinta di voti tutti uguali, otto o nove, se non dieci. Ma dare a tutti l'eccellenza è come non darla a nessuno, e di nuovo la scuola ha per l'ennesima volta rinunciato alla sua più profonda vocazione, quella educativa. Non dare segnali, aver timore di pronunciare i famosi «no che aiutano a crescere», è il modo migliore per educare alla cultura dell'illegalità perché, è lapalissiano, non c'è legalità senza confini. Così gli scrutini dei nostri figli, da riti di passaggio di cui avere un po' timore, si sono trasformati in appuntamenti rituali con condoni di massa, che i giovani, una volta adulti, si aspetteranno fuori dalle aule scolastiche e dentro le aule politiche - dal condono fiscale a quello edilizio - e giudiziarie: ancora e sempre domiciliari per criminali e stupratori.
Mi ricordo che le suore delloratorio insegnavano a diffidare della via più comoda: «In genere è quella che porta allerrore». Ora invece sulla via comoda cè più traffico che sulla tangenziale di Milano nellora di punta. E non solo per quel che riguarda giustizia e scuola, purtroppo.
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