Cronaca locale

Tributo a Nino Rota il Beethoven del grande cinema

La sua mamma, con esagerato orgoglio materno, mentre era in compagnia della madre di Giancarlo Menotti disse: «Il mio Nino sarà il nuovo Beethoven e il suo Giancarlo il nuovo Mascagni». Nino Rota, conosciuto soprattutto per aver firmato indimenticabili colonne sonore, è anche compositore di musica operistica e da camera di grande spessore ( i suoi brani da camera, d’opera, per trii, quartetti e orchestra non si contano) e non potrebbe essere altrimenti visto che se ne andò in America a studiare su insistenza di Arturo Toscanini (così come l’amico d’infanzia Menotti).
Rota, milanese ma cittadino del mondo, è scomparso trent’anni fa, poco dopo aver registrato il commento sonoro a Prova d’orchestra di Federico Fellini. È morto l’11 aprile e la città, colpevolmente, non ha fatto nulla per ricordarlo. Nulla fino ad oggi, perché da domani, per tre lunedì, il Teatro Nuovo organizza in pompa magna il «Rota memorial», tributo al compositore attraverso le sue musiche eseguite dal Jazz Vernizzi Sextet, dal Jazz du Conservatoire de Paris e dal Jazz Lab Ensemble. Un incrocio tra classica, jazz, suoni contemporanei e d’autore, com’erano le composizioni del maestro, che ha siglato i temi de La dolce vita e Lo sceicco bianco di Fellini, de Il gattopardo di Visconti, de Il padrino di Coppola.
Curiosa la storia de Il padrino; le musiche del primo film, nel 1972, avrebbero dovuto concorrere all’Oscar per la miglior colonna sonora, ma il film non fu ammesso nella cinquina perchè Rota aveva usato alcuni temi già utilizzati per Fortunella di Eduardo De Filippo. Però si prese la rivincita tre anni dopo vincendo la statuetta con Il padrino 2, penultimo capitolo della saga sulla mafia di Coppola.
Un talento onnivoro e difficile da raccontare in poche righe, se si pensa che a 12 anni compose l’oratorio L’infanzia di San Giovanni Battista (e in seguito, con Il cappello di paglia (confermando le iperboli materne fu considerato dai critici un Rossini e addirittura un Beethoven in erba) e scrisse canzoncine come La pappa col pomodoro resa celebre dal Giamburrasca di Rita Pavone. Fu il periodo in cui l’avanguardia lo considerava un «traditore» e un «melodico», ma Rota non ha mai badato alle critiche. «La musica è un diritto naturale dell’umanità - diceva - perché parla a tutti; potenti e umili, ricchi e poveri, felici e infelici, a tutti coloro che sono sensibili al suo profondo e potente messaggio».
Il suo genio e il suo variegato percorso di studi non potevano portare ad altri risultati. Si formò al Conservatorio di Milano e in seguito privatamente con Alfredo Casella a Roma, diplomandosi in composizione a Santa Cecilia. Poi la chiamata di Toscanini, di cui rimane un raro documento sonoro recuperato dopo un complicato trattamento tecnico. Il patrimonio dei suoi spartiti è custodito alla Fondazione Cini di Venezia; fotografie, copertine di dischi, cataloghi e memorabilia sono custoditi a Milano nella casa della ultraottantenne cugina del maestro Silvia Rota Blanchaert che ricorda: «Spesso dormiva in Conservatorio, componeva di notte, amava contemplare gli aranci del giardino di fronte». Scriveva la musica durante i colloqui con i registi: i film li vedeva dopo perché: «non voleva farsi condizionare in fase creativa».

«Fellini ricordava: «Improvvisamente, mentre parlavamo, metteva le mani sui tasti e partiva come un medium».

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