Da Tripoli a Palmira. Ecco le città del deserto (morale)

Lo storico dell'arte Cesare Brandi, negli anni '50, visitò la Libia e il Medio Oriente in cerca del passato romano. Ma indovinò le tragedie a venire

Da Tripoli  a Palmira. Ecco le città del deserto (morale)

«La città è pulita, forse la più pulita che io conosca, piena di fiori e silenziosa... Non mi sono mai sentito addosso tanta poca fretta. E allora ci si accorge che Tripoli è una città dolce, dove l'Italia ha versato l'olio in un lume. E ce n'ha versato tanto di quell'olio: ora, quello che ci versano gli americani e gli inglesi sarà petrolio e scatolette, ma è meno cordiale». Così appariva la capitale della Libia a Cesare Brandi. Lo storico dell'arte (e teorico del restauro, critico militante, scrittore) era un viaggiatore. In Città del deserto (Mondadori, 1958, ora ristampato da Elliot, introduzione di Geno Pampaloni, pagg. 176, euro 17,50) riunì il resoconto di due «avventure» all'insegna della scoperta dei resti di Roma in Africa e Medio Oriente.

L'itinerario complessivo tocca tutti i luoghi al centro della cronaca a causa dell'espansionismo islamico e delle tragedie ad esso connesse. Si parte da Tripoli (dove l'Isis oggi cerca spazio) e si arriva a Palmira (dove l'Isis, dopo aver ucciso l'archeologo Khaled Asaad, distrugge monumenti millenari). Siamo alla metà degli anni Cinquanta. Come spiega Geno Pampaloni: «Era un mondo diverso dal nostro: in Libia c'erano ancora gli inglesi, Beirut era la Svizzera del mondo arabo, Gerusalemme era divisa in due, Nasser era da poco al potere, i viaggi in aereo stavano appena diventando la norma».

Il deserto riduce all'essenziale, anche l'anima del viaggiatore, e Brandi medita sulla solitudine, sulla natura, sui miraggi o meglio sulle illusioni, sui sentimenti ancestrali risvegliati dal paesaggio. Ma innanzi tutto fa rivivere il passato senza cedere alla nostalgia o peggio all'estetismo.

Davanti alla nostra immaginazione, sfilano, evocati dalla prosa di Brandi, il mosaico pavimentale della Basilica giustinianea di Sabratha e le meraviglie di Leptis Magna, la città dell'imperatore Settimio Severo. E dunque l'arco che supera in audacia le invenzioni del Borromini; le sculture in cui confluiscono la tradizione classica e quella «nuova, lontanamente iranica, orientale». Quanta Italia c'è in questi scavi. Scrive Brandi: «Durante il ventennio fascista romanità, scavi e città romane finirono per urtare i nervi a tutti. Le esaltazioni che se ne faceva, per portare arbitraria acqua al mulino di allora, produssero innegabilmente l'effetto opposto, almeno in Italia. Psicologicamente si capisce: culturalmente è una assurdità. Era comunque inevitabile che, con la perdita della Libia, le due città antiche il cui scavo era stato un grande vanto italiano, subissero nella attualità della coscienza italiana un oscuramento. Ma lo scavo di quelle città è stato un fatto culturale di grande importanza, e soprattutto per Leptis Magna; anche per chi sta in Italia c'è di che largamente sorprendersi e largamente ammirare». L'ex colonia libica «è cresciuta su su con noi, ed è come una certa parentela che si sa che esiste anche se non ci si scrive da anni, neppure a Pasqua e Natale».

Per Brandi, Beirut è la porta d'ingresso del Medio Oriente. Poi ci sono il deserto siriano, il teatro di Amman in Giordania, la cupola della moschea di Omar a Gerusalemme, la basilica della Natività a Betlemme. Ancora la Siria, a cominciare da Damasco, la Moschea degli Omayadi e gli affreschi tolti a Dura Europos. Dopo una traversata nel deserto di trecento chilometri, infine si annuncia Palmira: «Erano torri solitarie, non rilegate con mura, dall'una all'altra si vedeva nitido il declivo che scendeva. Erano torri rossastre, come rossastra era la roccia di quei monti, erano le torri mortuarie di Palmira». Le tombe sono uniche al mondo, i palmireni furono i primi impresari di pompe funebri e concepirono la costruzione di quattro o cinque piani di loculi sovrapposti. Palmira è il regno dello stupore: la cultura figurativa, sintesi della tradizione partica e di quella romana; la lunghissima strada colonnata che rifiuta gli scorci prospettici; l'imponenza del tempio di Baal-Shamin. E lassù, sull'Acropoli, il punto capitale della città: il tempio di Bel con quel peribolo a doppio ordine di colonne che «incredibilmente» ricorda «le pilastrate di Michelangelo in Campidoglio».

È impossibile non pensare alla cronaca recente. Chiuso il volume, ai lettori resta la sensazione di aver attraversato un deserto molto particolare. Le città del deserto sono infatti anche le città del deserto morale innanzi tutto di chi le distrugge ma anche di chi non le protegge. Il silenzio che avvolge le rovine visitate da Brandi è il nostro silenzio di fronte al dilagare, in quelle città così lontane eppure così «italiane», del fondamentalismo islamico. Anche Brandi pensava all'attualità. In fondo si trova in Medio Oriente nel momento che precede la crisi di Suez. Il futuro di quelle terre appare drammatico. Sulla società araba pesa un immobilismo e un grumo di contraddizioni riconducibile alla religione. Ancora più difficili i rapporti con l'Occidente: «L'Islam si risolve nella speculare contemplazione di se stesso. Per cui può assorbire tutto, dalla radio alla pipe-line, dall'elicottero alla bomba atomica, ma la distanza che separerà l'Islam dall'Occidente rimarrà infinitamente più grande di quanto divide l'America dalla Russia, il comunismo dal capitalismo. Perché nulla può rimuovere e nulla può colmare il dislivello fra una concezione religiosa e una concezione economica della vita.

Il dislivello è di secoli, perché l'Islam appartiene, come nella stratificazione della crosta terrestre, ad uno stato fossile della civiltà, e come non è possibile far tornare mammuth un elefante, non è possibile far coincidere la volontà sommessa ad Allah con il libero arbitrio e con l'ordine sociale moderno, che sia espresso nelle democrazie parlamentari o nel comunismo integrale».

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