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Troppa pianificazione I dubbi di Von Hayek sul governo dei «saggi»

Troppa pianificazione I dubbi di Von Hayek sul governo dei «saggi»

I n politica, uno dei problemi fondamentali è la legittimazione del potere. Quanti oggi governano la società cercano di giustificare la propria posizione in vari modi: talora facendo riferimento a un sostegno proveniente dalla società, ma in altri casi rivendicando il diritto a esercitare quel medesimo dominio in virtù del possesso di qualità superiori e, in particolare, di specifiche conoscenze.
Nel suo insieme, il liberalismo ha contrastato queste tesi. È vero che alcuni autori in qualche modo riconducibili a questa tradizione - Gaetano Mosca, ad esempio - hanno immaginato che i «competenti» potessero rappresentare un forte ceto medio in grado di proteggere principi generali, lontano dai populismi di cui è preda la gente comune e al tempo stesso alieno dalle cospirazioni dei «poteri forti». La stessa democrazia rappresentativa, d’altra parte, si è rappresentata quale competizione tra élites e ha enfatizzato che nelle elezioni si sceglie sulla base delle opinioni, certo, ma anche sulle base delle qualità professionali.
In linea generale, però, i liberali hanno denunciato i limiti di una simile prospettiva.
In Friedrich von Hayek è cruciale la convinzione - basti pensare al volume del 1952 contro l’abuso della ragione - che il trionfo della pianificazione economica e sociale è associato a quella filosofia positivista (da Saint-Simon a Comte) che è tutt’uno con istituzioni come l'École Polytechique e la stessa École Nationale d'Administration: centri di eccellenza da cui proviene una parte rilevante dell’élite francese. Ma tendenze di questo tipo si sono avute anche altrove: basti pensare a Thorstein Veblen e al «movimento tecnocratico» americano.
A giudizio di Hayek la pretesa di ingegneri e scienziati sociali di amministrare la società sulla base delle loro conoscenze è però destinata al fallimento, dato che essi non sono in grado di gestire le informazioni distribuite tra i diversi membri della società. La tecnocrazia è attratta dall’apparente razionalità degli ordini costruiti, mentre una società può progredire solo se lascia libero campo all’ordine spontaneo del mercato concorrenziale.
Oltre che incapaci di raccogliere questo sapere che quotidianamente viene elaborato e utilizzato dall’economia libera, i tecnocrati al potere sono per loro natura orientati a erodere le libertà individuali. Trasferendo in ambito sociale la metodologia che è caratteristica delle scienze naturali, la tecnocrazia pone le premesse per un ordine in cui l’intera realtà è la semplice traduzione di progetti realizzati a tavolino. Come sottolinea Murray Rothbard in Man, Economy and State (del 1962), i politici che si legittimano sulla base del proprio sapere sono poi portati a promuovere una società «meritocratica», di cui essi fissano i criteri, ignorando come le preferenze individuali non siano in linea con gli obiettivi tecnologici che a loro stanno a cuore.


A ben guardare, allora, la critica liberale alla tecnocrazia è in primo luogo una contestazione del potere stesso (che pretende di sostituirsi a noi), nella consapevolezza che oggi il sapere scientifico è una delle poche armi che lo Stato può utilizzare per provare a giustificare la sua quotidiana azione di esproprio e regolazione.

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