Politica

Troppi facili allarmi sulle città La nostra salvezza è la fiducia

di Luca Doninelli

Paura diffusa, zone cittadine fuori controllo, bambini che non vogliono più vivere nel loro quartiere: ma che è ’sta roba? Chi è tutta questa gente che ha paura? Chi sono questi bambini che vengono cresciuti nella paura?
Che modo è questo di raccontare la vita della gente? I mezzi d’informazione ne sono pieni, ma che modo è? L’uccisione della bimba cinese e di suo padre a Torpignattara, a Roma, è ancora troppo oscuro, non si sa nemmeno se gli uccisori siano anche loro cinesi oppure italiani, non si conosce bene la dinamica dell’orribile gesto.
E già i bambini di Torpignattara vogliono andare a vivere altrove...
Da qualche tempo mi rendo conto, da molti segni, che nelle nostre città la criminalità è cambiata, e che il piccolo spacciatore o borseggiatore ha ben poche chances, ormai, di essere arruolato nel grande giro. Niente apprendistato, niente esami da superare. Questo accresce l’inquietudine, la smania.
Ma il problema vero non sta più qui. Se stesse qui, significherebbe che, di fronte alla malavita, esiste una società civile coraggiosa e responsabile, una società sana, senza ferite.
Invece la nuova cronaca nera ci rivela un mondo di violenza diffusa, dove le ragazze vengono uccise dai loro fidanzati, i figli dai padri e dagli zii, gli anziani dai nipoti. La famiglia, palestra dove affetti e responsabilità crescono insieme, si è trasformata in una specie di museo degli orrori, fatta di iperprotettività acefala che si trasforma - la chiamano «eterogenesi dei fini» - in pretesa, e da pretesa in violenza.
Così, altro che borseggiatori! Un abitante di Torpignattara, ma anche dei Parioli, oggi deve temere i propri figli, i propri genitori.
Il controllo dei quartieri non può essere compito della Pubblica Sicurezza, se prima non viene esercitato dai cittadini stessi. Ma un cittadino che vive di paura è un cittadino che non esiste più.
Noi però dobbiamo dire con forza, pena il suicidio civile (cui tanta stampa sembra anelare, non si sa perché), che le nostre città non sono soltanto luogo di violenza e di sopraffazione a tutti i livelli - dalla signora anziana che viene derubata della pensione al pubblico appalto che nasconde un riciclo di soldi illegali. Le nostre città sono piene di bravissime persone, che a tutte le crisi (da quella finanziaria a quella antropologica) rispondono amando le proprie famiglie e il proprio lavoro.
Queste persone, di cui solitamente la cronaca non si occupa, non vivono di paura, di rivendicazioni e di lamentele, e preferiscono impiegare il loro tempo in un’attività sicuramente più umana: fare, costruire, generare.
È la gente semplice che gremisce le cerimonie religiose, è la gente che va a teatro, che ascolta la musica perché la ama e non per stordirsi, e fa file interminabili per poter ammirare un quadro, per visitare un museo.
Certo, un prepotente, un arrabbiato, un arrogante, un maleducato, un violento sono di fatto più visibili di cento tranquilli cittadini. E anche i paurosi e gli scontenti riescono più facilmente a mettersi in mostra, in una società che sembra fondata unicamente sulla visibilità.
La persuasione, diffusa per anni da intellettuali, giornalisti e cattivi maestri, secondo cui è inutile «essere» se poi non si «appare», ha condotto le nostre menti disabituate al pensiero a concludere che l’essere addirittura coincide con l’apparire.
Chi ne fa le spese è quella parte di società che non ha tempo di apparire (attività che richiede molte energie).

Ma proprio questa è la parte di società che le difficoltà del tempo presente ci invitano a riscoprire, perché è da lei che possiamo nuovamente imparare quello che è sempre stato il più potente tra tutti i collanti sociali: la fiducia.

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