Roma - Il nostro sistema di istruzione pubblica crea profonde diseguaglianze, da sempre. La scuola statale così com’è garantisce, forse, pari opportunità di accesso ma certamente dispari opportunità di successo. L’Italia registra un tasso di dispersione doppio rispetto alla media Ue: il 20 per cento dei ragazzi al di sotto dei 24 anni ha rinunciato ad ottenere un diploma. E non sono certamente i provvedimenti varati dall’ultimo ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ad aver causato l’enorme divario che esiste tra la preparazione degli studenti del Trentino o del Veneto rispetto a quelli della Puglia o della Campania. Il solo fatto di frequentare una scuola al nord offre 68 punti Pisa (i test internazionali che misurano i livelli di apprendimento degli studenti) in più rispetto alla frequenza di una scuola al sud. Il che appare come un’assurdità visto che i criteri di assunzione per gli insegnanti sono gli stessi sia al nord sia al sud. Anche per i programmi le indicazioni sono nazionali. Allora perché abbiamo una scuola a livello della Finlandia in alcune zone del nord e un’altra a livello della Turchia nel meridione? E soprattutto come coprire quel divario? Sono le domande alle quali tenta di rispondere il Rapporto sulla scuola in Italia 2010, il secondo messo a punto dalla Fondazione Giovanni Agnelli a cura di Andrea Gavosto.
«Il federalismo scolastico può essere una risposta possibile per arginare la dispersione e sanare il divario - osserva Gavosto - Un federalismo però che eviti il rischio dell’abbandono di chi è già indietro, individuando come obiettivo primario quello di risanare il divario tra nord e sud, prima di tutto nel settore dell’edilizia scolastica». Anche il federalismo ipotizzato dal ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, ricorda Gavosto, prevede, meccanismi di perequazione. «Sarebbe necessario un patto fra Stato e Regione - propone Gavosto - Si sostiene economicamente chi è più indietro ma poi se la regione non garantisce un livello minimo di apprendimento in tutti gli istituti si procede al commissariamento, come si fa già per la sanità».
Ma quanto costa la scuola in Italia? Anche qui il Rapporto sfata il mito che si spenda meno che in altri paesi. In rapporto al Pil il nostro Paese sta al 3,4 contro una media del 3,5. In assoluto nel 2007 il Rapporto stima una spesa per la scuola pubblica di 43 miliardi e 138 milioni, cui vanno aggiunti i soldi spesi dagli enti locali per un totale di 52 miliardi e 386 milioni di euro. A questi vanno aggiunti i contributi delle famiglie (per mense e spese varie) i fondi Ue e anche un affitto figurativo, ovvero i soldi che lo Stato incasserebbe se affittasse gli edifici che ospitano le scuole. Un totale di 58 miliardi e 746 milioni sui quali gli stipendi degli insegnanti pesano per il 63 per cento. Il dato di spesa per studente però varia molto da regione a regione. In media si spendono 6.600 euro per studente, un po’ di più della media Ocse, circa 6.000 euro. Ma ad esempio in Trentino si sale a 9.900 (ma è un ente autonomo) contro i 5.800 della Puglia. L’esame analitico di tre indici (efficacia per indicare la qualità dell’apprendimento; efficienza per il contenimento dei costi ed equità per l’omogeneità dei risultati in tutti gli istituti) svela come quasi tutte le regioni abbiano almeno una debolezza, anche quelle con i risultati migliori. Il Trentino ad esempio ha ottimi risultati in tutti gli istituti ma spende troppo. Il Veneto spende poco, ha ottimi risultati ma non garantisce lo stesso standard in tutte le scuole.
Anche se la spesa per studente è nella media i risultati restano scarsi soprattutto al Sud.
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