Troppo faziosi E rimasero 53 TQ al bar

di Luigi Mascheroni

Le scissioni sono l’anima della politica, e le correnti della letteratura. Ma anche viceversa. Mettetele insieme, e avrete la «generazione TQ», il gruppo di intellettuali Trenta-Quarantenni che propone un rinnovamento radical del mondo culturale italiano. Il movimento è stato concepito l’inverno scorso nella mente di Scurati, Vasta, Cassini e Desiati, è nato a primavera a casa Laterza, è cresciuto questa estate nella Sala Arrigoni a San Lorenzo in Roma. Ha prodotto un Manifesto e si è inopinatamente spaccato: i dorotei dell’engagement politico da una parte, la nuova sinistra del dialogo editoriale dall’altra, i centristi letterari nel mezzo. Divisi, ma egemoni. Le convergenze parallele dell’intellighenzia. La reductio a pochi è il destino ineludibile di ogni avanguardia che osi più di quanto sappia volare. Tra scrittori, editor, giornalisti ed editori erano partiti in 150. Sono arrivati a firmare il documento conclusivo incentrato su una critica radicale alla società capitalistica e al liberalismo avanzato, in 53. Quel che resta di Adorno. Dialettici ma non illuminati. I sopravvissuti all’impegno di ritorno, senza più leader né big - in sostanza è rimasto il giro romano allargato di minimum fax - promettono benissimo, dicendosi per «una cultura della differenza», «aperti al dialogo» e «pronti al confronto», ma mantengono poco. Il politburo dei TQ da una parte firma un manifesto che è «un invito, aperto a tutti coloro che lavorano nell’ambito della cultura e delle arti, a pensare e ad agire insieme» ma dall’altro esclude categoricamente la possibilità di discutere con chiunque rientri nella galassia del neoliberismo («un’epidemia»), del berlusconimso («col suo portato insostenibile di autoritarismo, di sprezzo della legalità e di saccheggio per bande private del bene comune») e del leghismo («ignobile razzismo padano»). Ossia: vanno bene tutti, basta siano identici a noi. L’intolleranza del vero fascismo. Maximum fez. Defezioni caratteriali, spaccature morali, insofferenze salottiere, politicizzazione dogmatica, etica a senso unico. Se non ci fosse tutto ciò, il manifesto sarebbe peraltro condivisibile.

Chiunque, al netto delle faziosità delle premesse, sottoscriverebbe alcuni punti dello svolgimento: la cultura come bene comune il cui accesso dev’essere universale e tendenzialmente gratuito, la difesa e la riqualificazione delle biblioteche, la condanna delle recensioni a pagamento, la creazione di un catalogo dei grandi libri dimenticati, un «controllo» dei premi letterari et alia. Irricevibile, invece, la proposta di azioni di “guerrilla” culturale e artistica. Perché sarà la peggiore delle guerre. Quella unilaterale.

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