«Se la Turchia vuole far parte dellUnione Europea deve abbandonare la sua versione ufficiale dello storia. Deve abrogare leggi e norme che impediscono al cittadino di esprimersi liberamente sul genocidio armeno del 1915, anche se le sue opinioni divergono da quelle ufficiali, senza per questo subire unaccusa di tradimento o di finire in galera».
Parole di Taner Akçam, lo storico nato nella regione di Kars-Ardahan, considerato scomodo dalle autorità turche per aver scritto nel 1976 una serie di articoli sullesistenza dei curdi e la lotta di classe in Turchia, argomenti tabù che gli costarono un arresto e una condanna a dieci anni di reclusione. Un anno dopo riuscì a fuggire e rifugiarsi in Germania e oggi insegna negli Stati Uniti, alla University of Minnesota. Da allora è rimasto un intellettuale sgradito in patria, nonostante nel 1991 le norme che hanno portato al suo arresto siano state rimosse dal codice e possa, dal 1993, tornare quando vuole. «Amo il mio Paese e sono felice di andarci ad ogni occasione», dice.
La colpa maggiore Taner Akçam è stata comunque di aver ammesso apertamente per primo il genocidio armeno pianificato dai Giovani Turchi. Nel 2000 fu lui a lanciare un nuovo approccio alla ermeni sorunu (la «questione armena»): in un libro difendeva la legittimità di parlare del genocidio e adottare una prospettiva critica nei confronti dei problemi che circondano la stessa identità nazionale turca. La reazione della stampa e degli schieramenti politici fu tiepida per non dire ostile, il libro vendette sì e no un migliaio di copie, ma spinse altri intellettuali a scendere in piazza: uno fra tutti lormai noto Orhan Pamuk, romanziere che ha sfiorato il Nobel (per il mancato premio si è perfino parlato di complotto) e rischiato grosso per aver denunciato anche lui il genocidio dimenticato, il Medz Yeghern, ovvero «Il Grande Male»: incriminato per «vilipendio alla nazione», il processo è stato di recente annullato, un segnale che ha suscitato lapprovazione della comunità internazionale.
Nazionalismo turco e genocidio armeno. DallImpero ottomano alla Repubblica (Guerini e Associati, pagg. 284, euro 24) è il libro di Taner Akçam uscito in questi giorni in Italia, un saggio che è soprattutto una riflessione sulla Turchia di oggi, un Paese pericolosamente contraddittorio che non riesce a far pace con il proprio passato e di cui fra dieci anni è prevista lentrata in Europa. È la Turchia dove in alcune zone si possono vedere più ombelichi nudi che a Riccione e dove al tempo stesso lanalfabetismo femminile dilaga: arretratezza e modernismo, Islam e laicismo, censura e violazione dei diritti civili. Una, cento, mille Turchie, dove linformazione, la cultura e la propria storia sono costante oggetto di polemiche e discussioni: dal caso già citato di Pamuk a quello recentissimo che vede due giuristi sotto processo per aver proposto leggi più vicine allEuropa (il costituzionalista Ibrahim Kaboglu e il docente di Scienze politiche Baskin Oran); non ultimi i cinque giornalisti, comparsi il sette febbraio scorso davanti al giudice per aver violato un articolo del codice penale che sanziona come reato linsulto a qualunque organo di Stato.
«Il negazionismo di Ankara è dovuto a due ragioni - spiega Akçam a Il Giornale -. Una è psicologica. I turchi vedono negli armeni un simbolo e il ricordo di una delle pagine più traumatiche della loro storia: il collasso dellImpero Ottomano e la perdita dell85% del territorio imperiale nellarco di una quarantina danni. Durante lultimo secolo dellImpero i turchi vivevano sotto la paura costante di scomparire dalla scena storica, di essere messi da parte dalle potenze europee e gli altri gruppi etnici in Anatolia. È ovvio che si eviti di parlare di quel periodo. Inoltre non è una coincidenza che alcuni membri del partito politico che ha organizzato il genocidio siano diventati i riveriti fondatori della Repubblica. Ammettere oggi la possibilità che tra quei padri fondatori ci fossero assassini e ladri equivale a mettere in questione i fondamenti dellidentità stessa della nazione turca». Ma per lo storico cè un altro motivo, materiale, che ha determinato latteggiamento turco. «Se la Turchia avesse riconosciuto il genocidio avrebbe dovuto pagare un indennizzo in forma di terre e di denaro, anche se - sottolinea - non cè nessuna questione territoriale tra Armenia e Turchia». Parole durissime che lintellettuale rivolge soprattutto a unélite «burocratico-militare ottomana» che permane nel passaggio dallImpero alla Repubblica e che rifiuta di guardarsi allo specchio e sciogliere quei nodi irrisolti che ostacolano il cammino politico verso una democrazia. Anche se il riconoscimento del genocidio armeno è in realtà una vicenda molto più complessa: «Nonostante a partire dal 1987 il Parlamento europeo abbia approvato una serie di sei risoluzioni che richiedono il riconoscimento del genocidio come precondizione per lingresso della Turchia nella Ue - avverte lo studioso - queste risoluzioni non hanno tuttavia un potere effettivo». Come dire, lEuropa non ha mai realmente sviluppato una dottrina legale che richieda il riconoscimento degli errori passati come condizione dellingresso di un nuovo membro nella Comunità.
«La Turchia deve chiedere scusa e riconoscere il genocidio - sintetizza lo storico -. Certo, il conflitto tra coloro che vogliono che la Turchia si organizzi su più solidi principi democratici e coloro che vogliono che il Paese rimanga una società chiusa è evidente. La migliore arma di coloro che avversano lingresso in Europa è la magistratura turca alla quale si rivolgeranno con degli esposti contro coloro che osano parlare apertamente della storia turca».
La questione è insomma aperta. Per Akçam il 2015 sarà una data simbolica molto importante: «È il centenario del genocidio degli armeni - conclude - e la data ufficiale in cui è previsto lingresso della Turchia nellUnione Europea.
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