Cultura e Spettacoli

Tutte le strade portano alla Via della Seta

A Treviso una grande e ambiziosa mostra con duecento «pezzi», alcuni dei quali mai usciti dalla Cina

Tutte le strade portano alla Via della Seta

Giuseppe Bernardi
Una fiaba popolare cinese ci tramanda l’origine mitica del baco da seta. C’è una bella ragazza, il cui padre è partito per il mondo lasciando moglie e figli. Quando, piena di nostalgia, la moglie promette di dare la figlia in sposa a chiunque le riporterà il marito, il cavallo di casa, sentendo quelle parole, strappa la corda cui è legato, s’impenna focoso e si mette subito in cammino. Riesce infine nell’impresa, ma, tornato in famiglia con il padrone di casa recuperato, non ottiene la ricompensa. Lo uccidono e lo scuoiano. Sulla sua pelle stesa per terra, la bella ragazza, tutta sollevata, danza per la gioia. Però quella pelle, come destata, s’avvolge d’un tratto intorno al corpo della ragazza, e il fagotto s’invola tra i rami di un albero, dove ella si tramuta nella dea del baco da seta.
Una favola. Al pari di quella secondo cui Huang-ti, l’Imperatore Giallo (del III millennio a.C.) sarebbe vissuto trecent’anni, e durante il suo regno la moglie Si-ling-shi - che in alcune tradizioni figura come sua figlia - sarebbe stata la prima tessitrice di seta. Certo, il Bombyx mori, il bombice del gelso, fu custodito gelosamente e il prodotto prezioso della sua bava restò a lungo un mistero. I Romani non ne sapevano nulla, e credevano che la seta, da loro tanto apprezzata, derivasse da un filato vegetale ricavato dalla lanugine di certi alberi. In realtà, per secoli i Parti, monopolizzando un lucroso commercio, costituivano una cerniera di chiusura tra Roma e la Cina, e Crasso, quando volle liberarsi di quel blocco, fu sonoramente sconfitto e morì.
È straordinario vedere come tra i misteri insoluti della storia universale vi sia ancora la questione riguardante tempi e modi accertati dei primi contatti tra Occidente e Oriente. Alessandro Magno s’era spinto sino ai confini dell’India, ma è chiaro che già prima di lui esistevano rapporti commerciali tra i popoli dell’area mediterranea e quelli dell’Asia centrale, dell’India e della Cina. In quelle prime relazioni d’affari doveva esserci un prodotto, la seta cinese, il cui nome, anche sottaciuto, sarebbe diventato la sintesi simbolica della lunga via di scambi tra Est e Ovest, la linea d’attrazione tra i due poli del mondo, o meglio forse, dell’attrazione dell’Occidente per l’Oriente: Ex Oriente lux. Dice Adriano Màdaro, curatore dell’ambiziosa mostra «La Via della seta e la civiltà cinese» apertasi ieri alla Casa dei Carraresi di Treviso (fino al 30 aprile 2006): «Che la Via della Seta sia un’idea prima che una realtà sta anche nell’evidenza che essa di fatto non esiste. Esistono molte e diverse vie della seta, non solo terrestri ma anche marittime, che tra loro hanno in comune solo i poli di partenza e di arrivo». La via della seta s’identifica in sostanza con «la volontà degli uomini di andare, di esplorare, di comunicare, spinti primariamente dall’avidità dell’avventura che sempre accompagna l’altra grande avidità, quella del denaro, dei commerci».
Si è definita ambiziosa la mostra, e lo è forse sotto diversi rispetti. Vi è in primo luogo il presupposto di poter stabilire un iperbolico gemellaggio geografico-culturale tra la Cina e Treviso quale estremità occidentale della via della seta, e ciò in base al fatto che, storicamente, la bachicoltura, introdotta qui nel XIII secolo dai Veneziani, fece di questo territorio la prima provincia sericola d’Italia e d’Europa. Vi è poi in secondo luogo l’annuncio che questa mostra, intitolata alla «Nascita del Celeste Impero» (dal III secolo a.C. al X della nostra era), è solo la prima di quattro mostre. La seconda, «Il tesoro dei Mongoli», si aprirà nel 2007 e andrà dall’anno Mille al 1368, dedicata quindi alle dinastie Liao, Jin e Yuan, con una sezione riservata alla raffinata dinastia Song che sarà sbaragliata dagli eserciti di Kublai Khan all’epoca di Marco Polo; la terza è progettata per il 2009 e riguarderà «Lo splendore dei Ming» (1368-1644), la dinastia che più di altre contribuì a far conoscere la Cina in Occidente; e la quarta, infine, prevista per il 2011, con «Manciù, l’Ultimo Impero» (1644-1911), quando, con la dinastia Qing, la Cina visse il suo apogeo di impero tra i più ricchi e potenti del mondo, finché nel 1839 l’aggressione britannica, con la Prima Guerra dell’Oppio, ne avviò il declino. Di fronte a una simile iniziativa quasi faraonica, il cui portato sotteso potrebbe prevedere valenze ed esiti di natura anche sociale ed economica, oltre che culturale, si è contenti di poter limitare l’attenzione al punto fermo rappresentato dalla mostra presente, che, con i suoi duecento reperti, molti dei quali mai usciti prima d’ora dalla Cina, copre tredici secoli di storia e arte cinesi. Si fa partire la nascita del Celeste Impero, in realtà l’unificazione del Paese, dal 221 a.C., ad opera di Qin Shi Huagdi, il costruttore della Grande Muraglia. Al breve periodo della dinastia Qin, alla successiva e più longeva dinastia degli Han Occidentali (due secoli) e a quella degli Han Orientali (altri due secoli), appartengono i pezzi forse più preziosi e certo più interessanti della mostra, come i guerrieri, i soldati e i cavalli di terracotta dipinta rinvenuti nei famosi scavi di Lintong; o come l’impressionante sarcofago di giada rinvenuto nella camera mortuaria di Xuzhou, e le statuette nude di uomini, donne ed eunuchi, che sembrano una collezione di bambole senza braccia; e un vaso ai cui bordi sono attaccati a gambe levate due acrobati che ne tengono sollevato un terzo; e naturalmente reperti di sete ricamate e damaschi; e sequele di personaggi in varia foggia e attitudine, tutti, occorre dire, bene presentati e con illuminazione perfetta, cosa non facile, soprattutto nell’esposizione della statuaria minore.
Nella mostra, desta una qualche perplessità l’eccessiva importanza attribuita alle propedeutiche e didattiche tavole iconografiche distribuite lungo il percorso, opera di un illustratore storico dei costumi della Cina antica, e che, per quanto molto accurate e informative, rischiano forse di stonare accanto alle opere d’arte e di essere un polo d’attrazione nella visita delle scolaresche. E un prolungato vuoto, uno iato di qualche secolo, pare presentare invece la mostra tra i periodi precedentemente citati e la cosiddetta «età d’oro» della dinastia Tang (tra il 600 e il 900 d.C.), qui peraltro molto ben rappresentata da terrecotte dipinte, ori lavorati, ceramiche, bronzi dorati, porcellane e lacche. In questa sezione colpiscono forse più i pezzi meno «preziosi», che testimoniano l’enorme evoluzione dinamico-plastica delle opere, come certe figure di funzionari prostrati, un domatore col suo cavallo, una ragazza addormentata sulla gobba del dromedario, alcune piccole, essenziali danzatrici, le cui movenze rimandano improvvisamente alla memoria, se non proprio il quadro di Matisse all’Ermitage (La danza), le parole dette in proposito dal pittore, valide anche mille anni prima: «Riusciamo a raggiungere una pacata serenità grazie alla semplificazione delle idee e dei mezzi plastici.

Il nostro unico ideale è la loro omogeneità».

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