Tutti i progetti 2007 dei «padroni» del lusso

da Milano

Il lusso prepara affari d’oro per il 2007. E lo stesso vale per il made in Italy: dal momento che nella classifica dei primi 100 gruppi al mondo della moda e del lusso, elaborata dalla Pambianco Strategie di Impresa, 25 sono italiani. Certo, le dimensioni non sono quelle dei concorrenti francesi, capeggiati dal gigante Lvmh (oltre 14 miliardi il fatturato nel 2005) o svizzeri come Richemont, con 4,3 miliardi: ma nella top ten della moda italiana c’è chi realizza ricavi ben superiori al miliardo, come Valentino e Armani. E parla italiano anche un colosso da oltre 4 miliardi di fatturato come Luxottica, leader mondiale dell’occhialeria, che ha recentemente siglato un accordo decennale con Tiffany, simbolo indiscusso del lusso internazionale.
È sempre più su scala mondiale, infatti, che si giocano le occasioni di crescita per il mercato del lusso, che nell’anno appena concluso ha sfiorato i 160 miliardi, secondo uno studio di Bain & Company: in Cina, Russia e India cresce, infatti, il popolo dei nuovi ricchi. Addirittura, i cinesi si stanno trasformando da consumatori in investitori, acquisendo maison come St Dupont o Lanvin. Anche se non mancano i «vecchi» ricchi, dai signori del petrolio medio-orientali ai divi di Hollywood, tutti personaggi capaci di spendere anche 300mila dollari per un solo acquisto. Dovunque vivano, i super-ricchi hanno una caratteristica in comune: esigono le griffe europee, e soprattutto italiane.
E tutti i numeri uno del settore hanno nuovi progetti in vista: da Bulgari, che pensa a una linea esclusiva di cosmetici per rafforzare ricavi e profitti già record, al gruppo Mariella Burani che, dopo la pelletteria, sta allargando ai gioielli il suo polo del lusso sostenibile e che, insieme a Tod’s, è stato tra i protagonisti del 2006 a Piazza Affari, secondo gli analisti di Cazenove. Se loro in Borsa ci sono già, altri ci stanno pensando; qualcuno ha già deciso, come il gruppo Ferragamo, che intende festeggiare a Palazzo Mezzanotte l’ottantesimo compleanno dell’azienda. E ha affidato il progetto a Michele Norsa, già artefice della rinascita di Valentino, dopo l’acquisto della griffe da parte del gruppo Marzotto.
La sorpresa potrebbe essere Giorgio Armani: lo stilista ha sempre negato di puntare a Piazza Affari, ma le indiscrezioni dicono che più di una banca d’affari sia al lavoro. E secondo una valutazione di Julius Bauer, la griffe potrebbe valere oltre 3 miliardi.
Anche Prada ha riaperto il dossier quotazione, accantonato più volte in passato: il patron Patrizio Bertelli ha riordinato la maison, cedendo i marchi in perdita, Jil Sanders e Helmut Lang, mentre Church’s, che è in utile, è stata riacquistata. La data potrebbe essere il 2008: la stessa indicata come possibile da Giancarlo Di Risio, il manager che ha risollevato Versace dalle secche, in cui sembrava definitivamente arenata, di nuovo sulla cresta dell’onda, tanto da poter ripensare al listino, l’ultimo sogno del fondatore. Spetterà alla famiglia decidere, senza dimenticare che oltreconfine ci sono giganti sempre alla ricerca di firme da aggiungere al loro forziere. Come è accaduto con Gucci, da tempo di proprietà del gruppo francese Ppr: e che il mercato ritiene non sia destinata a rimanere isolata. Una battuta di Pinault sull’interesse per il made in Italy è bastata a far volare i titoli di quelle che, al di là delle smentite delle famiglie proprietarie, sono considerate le possibili prede: Bulgari e Valentino. E non a caso Ppr ha acquisito l’1,5% del capitale di un simbolo del design italiano, Poltrona Frau, matricola di successo lo scorso novembre. C’è però un rischio: «Tanto più i prezzi reagiscono ai rumors tanto meno le società diventano appetibili - spiega Elena Sottanella, analista di Abaxbank - e magari i francesi stanno guardando altrove, tra le griffe non quotate, come appunto Versace o, perché no, Armani.

Più che prede, a Piazza Affari vedo predatori: come Luxottica, che ha le acquisizioni nel Dna, Burani o anche Valentino Fashion Group, che potrebbe rafforzarsi nell’abbigliamento informale, dove la marginalità è alta, anche grazie alla delocalizzazione produttiva, per lo più in Estremo Oriente».

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