Silvio Berlusconi, Charles De Gaulle, Ronald Reagan. Gli «antipolitici». Ma dove? Ma come? Ma quando? A rigor di termine infatti, se si considera la politica dalla radice greca, e cioè come arte di governo dello stato, gli unici «antipolitici» in senso stretto possono definirsi gli anarchici, ma neanche tutti. Se poi vogliamo, alla moderna, aggiungere alla politica lattributo liberale, e cioè che la conquista del governo avvenga attraverso elezioni in un quadro di regole valide per tutti, il campo degli «antipolitici» si allarga ai leader totalitari. Punto.
Ma è proprio in questultimo senso che laggettivo «antipolitico» è stato usato dallintellighentsia per bollare almeno due delle esperienze citate, quelle di De Gaulle e Berlusconi, con contorno di supposte «spinte autoritarie», «rovesciamento delle istituzioni democratiche» eccetera eccetera. Quasi che la politica possa essere solo prerogativa delle assemblee e dei cosiddetti «corpi intermedi», dai sindacati ai giornali agli intellos. La medicina che lItalia ha ingurgitato per alcuni decenni, con risultati non proprio commendevoli. E che forse è più corretto chiamare «partitocrazia», «sindacatocrazia» o, alla Pannella, «regime».
Insomma, il presupposto per così dire terminologico del volume di Donatella Campus, Lantipolitica al governo. De Gaulle, Reagan, Berlusconi (il Mulino, pagg. 250, euro 14) proprio non regge, anche se è supportato da una vasta «letteratura». Eppure, regge il libro. Pieno di analisi convincenti e scevro da tare ideologiche. Preciso nella descrizione dei meccanismi di conquista del consenso. Fine nel trovare la convergenza (e le differenze) fra leader che seppero, in maniera diversa, rinnovare la politica sul versante della comunicazione e dei contenuti in momenti di crisi. La Francia attraversata dallirreversibile crisi della Quarta Repubblica, coi suoi meccanismi assembleari incapaci di rispondere allemergenza Algeria; lItalia dopo la bufera di Tangentopoli e lazzeramento dei partiti di governo; gli Stati Uniti messi allangolo in politica estera e compressi allinterno dal peso della macchina burocratica e da una crisi di fiducia alimentata dalla presidenza di Jimmy Carter.
I connotati dellantipolitica elencati dalla Campus dicono dunque di altro. E la stessa autrice è costretta a rilevare come De Gaulle, ad esempio, «non disprezzava affatto la politica intesa come arte e servizio ma, come osserva Ionesco, quel che aborriva era la professionalizzazione del sacro dovere, la subordinazione dellinteresse nazionale a secondi fini ideologici e, anche peggio, a vili intenti elettorali». Lo stesso Berlusconi contrappone il «teatrino della politica» delle parole alla «buona politica» del fare. Quanto a Reagan, meno outsider degli altri, visto che la sua ascesa alla presidenza degli Usa fu preceduta da un lungo tirocinio, dal sindacato degli artisti al governatorato della California, il suo dito era puntato contro il «big government», contro il centralismo di Washington e la sua costosissima macchina burocratica: in linea con una tradizione politica americana che parte da Thomas Jefferson.
Le caratteristiche che accomunano i nostri tre eroi sono soprattutto in uninedita «retorica» (larte del convincere!), che parla direttamente al «popolo» bypassando le élite con un linguaggio semplice e diretto, nelluso moderno del mezzo televisivo, nel rafforzamento dei poteri presidenziali rispetto alle assemblee parlamentari. Ma se è antipolitica questa, viva lantipolitica!
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