Silvio Berlusconi non è più a Palazzo Chigi da una settimana e già lo rimpiangono. Lo issa in prima pagina, con la consueta perfidia, il Fatto quotidiano, che non ne vuol sapere di rimanere orfano; lo celebra a modo suo Repubblica; lo passano al microscopio due campioni del giornalismo come Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo; lo evoca, sia pur indirettamente, l’Associazione nazionale magistrati, che non può rassegnarsi al pensionamento dello storico contendente. Sì, è come in un celebre racconto di Conrad: il duello durerà tutta la vita e se non c’è più colui col quale hai incrociato le lame ti ritrovi pure tu in crisi, magari sul lettino dello psicoanalista.
Il comunicato dell’Anm è un indizio che l’Italia antiberlusconiana ha ancora l’elmetto in testa. Ieri, a Velletri tre ragazzi vengono condannati per stupro. I parenti insorgono, devastano l’aula, costringono i giudici ad una fuga precipitosa. Un episodio inqualificabile, seguito dalla controffensiva delle forze dell’ordine: venti persone vengono fermate. Potrebbe pure finire lì, ma il partito dei giudici non si accontenta e ci spiega che «questi sono gli effetti di una lunga e irresponsabile campagna di delegittimazione della magistratura e delle sue decisioni». Non si fanno nomi, ci mancherebbe, ma il messaggio è chiaro: sembra di stare al Palazzo di giustizia di Milano, nell’aula del processo Mills. Anni e anni di corpo a corpo, di zuffe e mischie furibonde, di leggi, lodi e ricusazioni.
Vuoi mettere? Non è che tutto questo armamentario possa andare in cantina col suo inevitabile seguito di carriere costruite in nome della resistenza al Nemico di Arcore. Non si smantellano in quattro e quattr’otto gli arsenali della guerra fredda. E allora, anche se non c’entra niente, ecco che dalla solitamente sonnacchiosa provincia si alza un grido di dolore.
Da Velletri a Milano, anche nella città del rito ambrosiano e degli infiniti processi al Cavaliere succede qualcosa. Se non è nostalgia canaglia è però qualcosa che le assomiglia molto. Berlusconi va in tribunale per una delle tantissime udienze che ostruiscono la sua agenda e si ferma per un caffè in un bar di Porta Vittoria.
Il Fatto, in crisi di astinenza, si butta su quei cinque minuti, invia una telecamera, intervista il barista e mette tutto sul sito. Sul giornale, in prima pagina, c’è la foto di Silvio con la tazzina fra le mani, corredata da un titolo annegato nel più inconsolabile rimpianto. «Lei non sa chi ero io», racconta, utilizzando uno strepitoso imperfetto, l’ormai ex premier al tizio che gli ha appena servito il caffè. Naturalmente il rimpianto è alla maniera del Fatto e si trasforma rapidamente in sberleffo: «Anche il barista - recita la didascalia - gli dà le spalle».
Il Cavaliere non è più sul ponte di comando, ma manca, manca sempre di più. E in qualche modo bisogna tenere in vita il suo personaggio che ha riempito non uno ma diciassette anni a cavallo di due secoli. Il Corriere della Sera apre addirittura pagina 9 per descrivere la mattina giudiziaria del fondatore di Forza Italia e ne approfitta per pubblicare, nientemeno, un mini album di piccoli gesti quotidiani. Prima istantanea: eccolo mentre assapora un lecca-lecca appoggiandosi al bancone; nella seconda è alle prese con l’ormai mitico caffè; nella terza, finalmente lascia il bar e sale in macchina per raggiungere il Palazzo di giustizia.
Del resto quella fabbrica di best seller che sono Stella e Rizzo, consumati narratori dell’epoca berlusconiana, dei suoi tic, dei suoi trionfi e delle sue cadute, spaccano il tempo come e più di un metronomo. Berlusconi viene disarcionato e loro, poche ore dopo, sono in edicola con il meglio di questi diciassette anni, una sorta di graffiante e ironico super blob intitolato Così parlò il Cavaliere.
Gaffe, battute, verbali, parole chiave, «da bagattella a teatrino, da Apicella a zoccola», come documenta sempre sul Corriere una firma del peso di Pierluigi Battista.
Repubblica è come al solito più aggressiva e in un poderoso pezzo di Piero Colaprico alza il sipario sul processo Ruby: «Ecco le carte - squilla quotidiano diretto da Ezio Mauro - per inchiodare il Cavaliere». Veramente è dal novembre ’94, giusto diciassette anni fa, che devono inchiodare il Cavaliere, ma il giornale romano non dispera e ripete per l’ennesima volta il titolo-fotocopia.
È la routine. Poi c’è l’eccezionalità del momento e per quello c’è uno strillo in prima pagina: a 4 euro e 90 centesimi Repubblica vende Gli anni del Cavaliere - un Atlante di 260 pagine.
Un Atlante per i lettori disorientati. Nell’era del post, rischiavano di perdere la bussola; invece ritroveranno le rotte percorse in questi diciassette anni. E, rinnovando il duello che non finisce mai, si ritroveranno a casa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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