Tutti gli uomini di Zu Binnu Ecco come lo hanno nascosto

Tra i protettori del Padrino anche personaggi politici e imprenditori

nostro inviato a Palermo
Medici, imprenditori, commercialisti. Impiegati, costruttori, carabinieri. Compaesani, disoccupati, avvocati. Vivandieri, portaordini, postini. E perché no, politici. L’esercito senza volto del Padrino invisibile era, e lo è ancora, una schiera infinita di uomini più o meno d’onore, strutturata a compartimenti stagni, con poche defezioni, regole ferree, addentellati ovunque. Un esercito organizzato per garantire una latitanza senza precedenti e per supplire ai pentimenti dei pentiti, si chiamino essi Giuffrè o Campanella.
Quel che si sa, ad oggi, dei fedelissimi di Provenzano è scritto negli atti giudiziari e nelle migliaia di intercettazioni delle inchieste in corso, di quelle passate in giudicato, o abortite sul nascere: fioccano i «bracci destri», i «colletti bianchi», infiniti sono i «prestanome del boss». Non c’è traccia, seria, corposa, corroborata dai riscontri processuali, del Terzo Livello politico di cui si ricomincia a sussurrare da settimane, con la vergognosa condanna di Contrada, l’inchiesta sulla borsa scomparsa del giudice Borsellino, le accuse del procuratore nazionale antimafia reiterate ancora ieri prima che un take dell’agenzia Ansa rilanciasse la notizia del rinvenimento di un volantino pro Cuffaro nella masseria di Provenzano.
L’impunita latitanza del boss, che gli specialisti dell’Antimafia non s’accorgono essere arrivata giust’appunto col ricambio di governo, è durata tanto per tanti motivi: per la collusione mafiosa di troppi uomini dello Stato e di gente insospettabile, per la superficialità con cui anche la magistratura ha trattato in passato il caso Provenzano concentrando gli sforzi per esempio su Andreotti, perché la strategia low profile del Grande Capo alla fine ha pagato in termini di compiacenze e spazi d’azione. Stando ai fatti certi, conclamati, se la politica s’è sporcata le mani col Padrino l’ha fatto attraverso personaggi di basso profilo, mai di primissimo piano. C’è un’inchiesta sul presidente della Regione, è vero, ma le questioni prettamente mafiose riguardano in realtà un imprenditore della sanità, Michele Aiello, che grazie a un pool di infedeli servitori dello Stato avrebbe spifferato ogni tipo d’accertamento al Padrino stesso, suo compare. L’ex vicepresidente del consiglio comunale di Villabate, Francesco Campanella, consulente del sindaco di Forza Italia e del sindaco di centrosinistra a Bagheria, è il «politico» che ha permesso la falsificazione della carta d’identità a zio Bernardo per il ricovero a Marsiglia. Parla di tanti politici, di destra e di sinistra. Parla della predilezione di Provenzano per il settore della Sanità, e altri pentiti insistono sul punto tanto da coinvolgere colletti bianchi in camice bianco, i medici del Civico e del Policlinico, Salvatore Aragona, Giuseppe Guttadauro, Domenico Miceli. Alti livelli e piani bassi. Bassissimi. Come quando Provenzano, per ricevere la corte, si faceva trovare, previo appuntamento confermato da un pizzino, nell’autoscuola Primavera al centro di Palermo. Talmente furbo e previdente che alla fine hanno sospettato di lui perché Riina si era fatto beccare e lui no, e un motivo ci doveva pur essere. Si diceva - blaterano i pentiti - che era uno sbirro. Un confidente dei carabinieri. Uno che - l’inchiesta dei carabinieri sulle talpe di Palermo l’ha dimostrato - aveva l’amico giusto al posto giusto. Il riferimento va a tutti i blitz a cui è scappato indenne di recente. Ma anche alle trappole evitate in passato, vedi quella preparata con cura dal fidato mafioso Luigi Ilardo, confidente del colonnello del Ros, Michele Riccio, ammazzato per aver osato tanto.
Aveva uomini e donne dappertutto, il Nostro. L’esercito invisibile si estendeva tra i geometri, i commercialisti, i notai, nelle minuscole amministrazioni comunali: il caso del suo viaggio in Francia e del suo ritorno a Palermo, ne è la dimostrazione più lampante: una cinquantina di persone coinvolte, staffette di macchine che fanno avanti e indietro per la penisola, attraversano il confine, prendono contatti con i medici, il ricovero con tanto di traduttrice-badante, Madeleine Orlando, moglie di un panettiere di Villabate, Salvatore Troia, figlio dell’ignaro prestanome di Provenzano sul documento di riconoscimento valido per l’espatrio. Peccato che anche qui un cattivo ragazzo, uno della Famiglia, ha sgarrato non appena ha sentito l’odore del carcere eterno. Mario Cusimano, uno dei postini di pizzini preferiti dalla cosca di Villabate, a verbale è andato a ruota libera disarticolando l’intera struttura che aveva organizzato nei dettagli ogni sfumatura del tour marsigliese, compresi i festeggiamenti del boss in Sicilia con cassate e pasta di mandorle. E non è l’unica volta che la fitta rete di informatori e guardaspalle ha salvato lo Zio: quella maledetta prostata l’aveva portato in un centro specializzato, qui la polizia è arrivata tardi. Nove anni fa si ricoverò per forza in un ospedale di Bagheria e nessuno si accorse del paziente illustre. Dato più volte per morto, altro per moribondo, altre ancora per espatriato. Ma lui è sempre stato qui anche se gli addetti ai lavori siciliani hanno storto il naso quando il suo avvocato, giorni fa, se ne uscì a freddo con una rivelazione choc: «Bernardo Provenzano è morto». Come si è visto, non era morto, anche se gli sbirri che gli stavano addosso lo additavano come un dead man walking. Un morto che cammina. Forse l’interessato capomafia lo sapeva. Sapeva d’esser arrivato al capolinea anche perché di nuovi pentiti, e nuovi confidenti, aveva certamente sentito parlare. Le voci di una soffiata, ricorrenti quanto le smentite della polizia, anziché allontanarlo dal luogo natio dove era più scontato cercarlo, l’hanno portato ad avvicinarsi sempre più a Corleone e ai nemici in divisa di cui si era preso beffa per anni. Se prima i messaggeri di pizzini e pacchi-vestiario avevano adottato ogni cautela, stavolta hanno sbagliato più di un movimento. Se Provenzano si sia voluto far prendere perché stanco di fuggire e sfibrato dagli acciacchi, non lo sapremo mai. L’importante è che la polizia fosse al posto giusto nel momento giusto. Indipendentemente dalle dietrologie, la latitanza di 43 anni è finalmente terminata.

Ora occorre capire quale capomafia, fra Salvatore Lo Piccolo e Matteo Messina Denaro, sarà l’erede di un leader che non amava il sangue, e che non stava più bene né a loro due né ai vecchi compagni corleonesi murati vivi in regime di 41 bis.
gianmarco.chiocci
@ilgiornale.it

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