«Uccisero il poliziotto e depistarono le indagini»

Andrea Acquarone

Quindici minuti, chissà se d’agonia. Con un proiettile in corpo sparato dal fuoco «amico». Così morì, in quella gelida notte del 17 dicembre 1997, la testa di cuoio Samuele Donatoni. Già lo si sapeva, o perlomeno i giudici lo avevano sentenziato assolvendo lo scorso dicembre dall’accusa di omicidio Giovanni Farina (uno dei sequestratori di Giuseppe Soffiantini), coivolto nella sparatoria.
Ma ciò che si legge adesso nelle motivazioni di quel verdetto è ancora più atroce. Le scrive la quarta sezione della Corte di Assise di Roma: «Ci fu una precisa volontà di nascondere la verità fin dal momento in cui l’ispettore dei Nocs venne colpito. Il dato più inquietante che emerge dai nuovi accertamenti è costituito dal comportamento dell'autore dello sparo. Che evidentemente si allontanò immediatamente dal posto omettendo anche di soccorrere il compagno da lui colpito e costringendo, forse con la complicità di chi altro gli stesse vicino a una ricerca del corpo di Donatoni che durò 15 lunghissimi minuti».
Un’intreccio che porta lontano e addirittura riesuma la figura di un uomo che non c’è più. Quel Nicola Calipari dei servizi segreti ucciso «per errore» nel marzo scorso dai marines Usa a Bagdad, mentre rientrava con la giornalista appena liberata Giuliana Sgrena. Lui nel 1997 era dirigente della Criminalpol Lazio, Umbria e Abruzzo. Il poliziotto, non ancora diventato 007, in aula ricordò che gli era stato riferito a proposito della sparatoria «che era avvenuta nella zona del ponticello, dove furono rinvenute le macchie di sangue e non nella zona riguardante lo scambio di colpi tra il bandito Moro e Sorrentino (uno degli agenti dei Nocs). «Si dimostrerà in seguito - precisano i togati - che fu proprio in quella zona che Donatoni venne colpito».
Silenzi, bugie, rapporti falsificati, dunque. Per questo Mario Almerighi, presidente della Corte d’Assise invoca l’apertura di una nuova inchiesta. Per riesaminare le testimonianze degli stessi agenti Nocs presenti quella notte a Riofreddo e di una intera catena di comando che sarebbe stata responsabile di «omissioni, depistaggi e inquinamenti delle prove» sull'omicidio dell'ispettore Donatoni.
Sempre nella sentenza si spiega, sulla scorta dei rilievi tecnici presentati al processo, che non fu il Kalashnikov di Mario Moro, uno dei sequestratori ucciso qualche giorno più tardi dai Nocs, a esplodere il proiettile fatale a Donatoni. L'arma che fece fuoco secondo la Corte «era una Beretta parabellum, calibro nove, in dotazione agli stessi agenti». Con l'invio degli atti alla Procura la corte d’Assise chiede innanzitutto di riesaminare testimonianze e ruoli non solo del commando di poliziotti che agì nel blitz ma anche dei vertici. A cominciare da Claudio Clemente, allora responsabile delle teste di cuoio.
A carico dei colleghi dell’ispettore ucciso, il presidente della quarta Corte, Almerighi, evidenzia «gravi attività e omissioni, inquinamenti probatori e false o reticenti dichiarazioni testimoniali». Oltre che Clemente nel mirino dei giudici anche l’ispettore, Vittorio Filipponi e Paola Montagna, agente della scientifica che «con la assai verosimile copertura del suo superiore gerarchico Alfonso D'Alfonso, le consentirono di far sparire, senza possibilità di alcun controllo processuale, reperti importantissimi al fine della ricostruzione dei fatti».
Spirito di corpo per «salvare» un collega? Il numero delle persone che rischiano di finire indagate, e che soprattutto si sarebbero attivate per nascondere la verità, non sembra condizione sufficiente. Tra i vari agenti sospettati di non aver raccontato tutto, o peggio di aver mentito nei rapporti, c’è pure l’assistente capo Nello Simone.

I giudici sono lapidari con lui: «La falsità delle dichiarazioni rese e la sua ingiustificata reticenza nel non voler dichiarare i nomi degli altri due componenti la sua pattuglia, non permettono di far assumere a quegli elementi indiziari il carattere della univocità».
Allora chi ha sparato all’ispettore?

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