Gli Usa pronti a tornare in Libano: «Potremmo mandare i marines»

Un altra giornata di battaglia. Il governo ai generali: «Eliminate i capi dei terroristi»

Gli Usa pronti a tornare in Libano:  «Potremmo mandare i marines»

Qualcuno al Pentagono ci sta pensando. Il governo libanese ha chiesto soccorso e il Dipartimento di Stato di Washington ha già fatto sapere che potrebbe accontentarlo. Ventiquattro anni dopo il terrificante attentato suicida che il 23 ottobre 1983 massacrò più di 240 marine inviati come forza di pace a Beirut, i soldati americani potrebbero rimettere piede in Libano e collaborare nella lotta ad Al Qaida. Assieme ai marine potrebbero arrivare 280 milioni in aiuti militari richiesti dal governo di Fouad Siniora.
Il buco nero del campo profughi di Nahr El Bared, intanto, è ancora lì tra colonne di fumo, esplosioni, raffiche di mitragliatrici e salve d’artiglieria. Mentre migliaia di palestinesi tentano la fuga approfittando di un parziale cessate il fuoco entrato in vigore ieri sera, il governo conferma di non voler trattare, ha anzi autorizzato l’esercito a eliminare fisicamente i capi di Fatah Islam e tutti i suoi militanti. Ma il rischio è quello di buttare via il bambino con l’acqua sporca.
La sorte dei 31mila rifugiati prigionieri tra il martello dell’esercito e l’incudine dei militanti alqaidisti agita gli altri campi palestinesi, minaccia d’innescare una rivolta generalizzata regalando consensi all’integralismo armato.
Dal buco nero trapelano, intanto, voci di massacri e distruzioni. Le telefonate degli abitanti di Nahr El Bared usciti dai rifugi sperando nell’arrivo di soccorsi durante la tregua proclamata ieri pomeriggio da Fatah Islam riferiscono di famiglie intrappolate sotto le macerie, di feriti e morti nelle strade. «Ci sono feriti ovunque, non abbiamo pane medicine ed elettricità. Molti bambini sono intrappolati sotto le macerie», racconta al telefono Sana Abu Faraj a un giornalista della Tv panaraba Al Jazeera. Nessuno però è in grado di verificare i racconti.
I pochi giornalisti accodatisi al convoglio delle Nazioni Unite riferiscono di auto stracolme di gente in fuga con lenzuola e tovaglie bianche appese ai finestrini. Chi s’affaccia al campo intravede cadaveri abbandonati nelle strade. Il convoglio dell’Onu intanto si blocca all’entrata del campo, una piccola folla affamata e terrorizzata assedia un’autocisterna d’acqua e un camion di viveri. I volontari iniziano la distribuzione, ma di colpo l’inferno riprende. I militanti appostati sui tetti ai perimetri del campo bersagliano un gruppo di militari che tenta di avvicinarsi.
L’artiglieria riprende a martellare il centro abitato. I camion bianchi delle Nazioni Unite si ritrovano nel mezzo. Un autista viene ferito. Due civili cadono uccisi dalle bombe. Il personale accusa i militari di aver aperto il fuoco senza tener conto della loro presenza nel campo.
Polizia ed esercito sono all’opera, nel frattempo, anche nel cuore di Tripoli. Nel quartiere dove domenica venne individuata la prima cellula di Fatah Islam vengono segnalati nuovi movimenti sospetti. L’esercito circonda un palazzo, fa irruzione in un appartamento a colpi di bombe a mano. Un militante esce dal suo nascondiglio, finge di volersi arrendere e si fa saltare in aria. Nel resto del Paese l’allarme bomba è ai massimi livelli. Domenica notte un ordigno ha ucciso una donna all’entrata di un centro e lunedì sera un’altra bomba ha provocato molti feriti in un’area commerciale sunnita.
A Beirut il responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Xavier Solana, cerca intanto soluzioni a una crisi che rischia di dividere ulteriormente un Paese già scosso dalla contrapposizione tra il governo e le forze dell’opposizione filo siriana alleate di Hezbollah.

Ad Ein el Hilweh, il più grande campo profughi palestinese, alla periferia di Sidone, la situazione è già al livello di guardia. Decine di militanti integralisti bruciano pneumatici nelle strade e promettono la rivolta se l’esercito non allenterà l’assedio di Nahr El Bared.

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